La vicenda dei cosiddetti atleti intersessuali, spesso definiti come soggetti con disturbo dello sviluppo sessuale (DSS), che ha scatenato una querelle mondiale dopo l’incontro di boxe tra l’algerina Imane Khelif e la nostra Angela Carini, ha portato in luce un problema colossale all’interno delle competizioni sportive di altissimo livello, quali le Olimpiadi. Forse pochi ricorderanno le foto, piuttosto emblematiche, del podio degli 800 metri di atletica nell’edizione di Rio del 2016. Una immagine che ancora oggi ci appare sconcertante con ai primi tre posti proprio tre atlete portatrici di DSS.
Ora, dato che l’argomento appare estremamente complesso, la soluzione non può essere certamente demandata ai soliti espertoni della scienza i quali, come abbiamo potuto sperimentare durante la pandemia, spesso dicono tutto e il contrario di tutto. Personalmente mi sembra che i vecchi protocolli del Cio, attualmente resi molto blandi, e quelli ancora in vigore in alcune singole federazioni internazionali rappresentano un criterio ragionevole, basato su un limite massimo di 5 nanomoli/l di testosterone per le donne, considerando che il livello medio nelle donne della stessa età della boxer algerina non supera mai i 2,5 nanomoli/l: quindi già sarebbe applicata una grande tolleranza. Per non parlare poi del cromosoma XY che, da quel che ho potuto capire ricercando l’argomento, rappresenta un fatto estremamente raro nei soggetti femminili e quasi sempre legato da una seria patologia.
Quello che invece balza agli occhi, fin dai tempi in cui furoreggiava nei cosiddetti Paesi d’oltrecortina l’utilizzo nelle donne di ormoni maschili e steroidi anabolizzanti, è che non sono pochi i soggetti, sostenuti dai loro entourage nazionali, che ci marciano su questa linea dell’indeterminatezza di genere, tale da far impallidire nella tomba il grande Werner Heinsemberg.
D’altro canto, forse pochi sanno che alle prime Olimpiadi della storia moderna, disputate ad Atene nel 1896, era stata inibita la partecipazione alle stesse donne, le quali, a partire dalla successiva edizione di Parigi del 1900, iniziarono con grande fatica e con molta pazienza ad allargare il proprio spazio, raggiungendo attualmente una sostanziale parità nel numero delle competizioni disputate tra i due sessi.
Ebbene, mi sembra di intravedere in questa confusa deriva che tende a mescolare i generi un inquietante punto di arrivo: una parità assoluta tra maschi, femmine e chiunque senta di appartenere ad una condizione per così dire fluida.
In pratica, abolendo qualsiasi distinzione si bloccherebbe sul nascere qualunque polemica, sebbene i maschi e i fluidi nati maschi forse ne ricaverebbero un indubbio vantaggio competitivo, a tutto svantaggio di chi ha avuto in dono dalla natura più grazia e meno potenza fisica. In questo modo ne gioverebbe pure la nostra sfortunata pugile Carini, che non verrebbe più messa alla gogna per essersi rifiutata di continuare a combattere contro una donna che picchiava forte come un uomo, magari pensando di preservare la proprio incolumità.
Prendendo a prestito un celebre detto di Stalin, secondo cui i problemi che gli creava qualcuno si risolvevano semplicemente eliminandolo, si potrebbe sostenere che azzerando anche nello sport ogni forma di differenziazione biologica, così come accade ad esempio nel mondo perfetto delle quote rosa, non esisterebbe più alcuna disputa sul sesso degli angeli.
D’altro canto, chi ha voluto la bicicletta della parità di genere a tutti i costi, infischiandosene dei diritti delle donne biologiche a non farsi surclassare alle Olimpiadi da soggetti intersessuali, a questo punto bisogna che pedali.
Claudio Romiti, 6 agosto 2024
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