Nel 1985 Francesco Cossiga si schierò a difesa dell’autonomia della politica e della Costituzione, quest’ultima tanto osannata dagli strepitii di apparente devozione dei progressisti, mobilitando i carabinieri che si disposero all’esterno del Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura. Il casus belli, che provocò la reazione del Capo dello Stato, derivava dalla convocazione del plenum per “censurare” l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi “reo” di aver criticato i magistrati in riferimento alle carenze investigative sull’assassinio del giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Cossiga imputava ai membri del Csm la tracimazione dalla cornice costituzionale, ponendosi, a giudizio del “picconatore”, in un assetto eversivo e di usurpazione contro lo Stato.
Il Csm è l’organo di autogoverno della magistratura che ne garantisce l’autonomia e l’indipendenza dagli altri poteri dello Stato, ma se interviene nella dialettica politica si sveste dei suoi abiti di imparzialità per indossare la mimetica bellicista in contrapposizione ai poteri costituzionalmente sanciti. Ai singoli e agli associati è riconosciuto il diritto di critica, ma il Csm non può essere ad essi equiparato perché possiede attribuzioni specifiche per il mantenimento dell’equilibrio tra i poteri istituzionali. Qualora l’organo di autogoverno dei togati debordi dalla tipizzazione delle sue facoltà, criticando l’organo costituzionale come nel caso del 1985 con la “censura” al presidente del Consiglio, agirebbe in modo ultroneo alle funzioni disciplinate dalla Carta. Il rapporto problematico fra politica e magistrati ha origini ataviche, ma è con lo scandalo di Tangentopoli nel 1992 che si delinea la subordinazione dei partiti alle toghe con la rincorsa a disarmarsi delle prerogative di garanzia, rinunciando al filtro dell’immunità parlamentare. La delega del potere alla magistratura rappresentò l’atto di resa della politica, che finì per castrarsi ed evirarsi pur di non apparire, nel clima forcaiolo dell’epoca, abbarbicata al privilegio. Ci furono responsabilità che i processi accertarono con la “decapitazione” dell’intera classe politica di governo, ma l’errore che ancora oggi paghiamo è aver ceduto alla magistratura il monopolio dell’etica con la politica che si autoinflisse una sorta di condanna perpetua.
Una parte della politica si è aggregata al filone giustizialista, rimanendo abbagliati dal carisma redentivo dell’azione giudiziaria e conferendo una virtù dogmatica di probità ai magistrati. Tale riconoscimento di infallibilità ha deturpato principi costituzionali come la presunzione di innocenza, commutando l’indagine in una pena anticipata che la sentenza seppure riparatrice non riesce a compensare, riabilitando l’immagine dell’indagato. L’innocenza non fa spettacolo, mentre la presunta colpevolezza viene amplificata dal circo mediatico-giudiziario.
Veniamo ai giorni nostri: le intercettazioni sul telefono di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e sotto inchiesta per corruzione, hanno fatto emergere il disegno criminoso di chi avrebbe dovuto perseguire il criminis e non istigarlo. Il traffico delle poltrone, presso le Procure in cambio di utilità, affidate alla regia di Palamara ha procurato un disonore difficilmente sanabile nel breve periodo. Un ordine dello Stato, non potere così come statuisce la Carta venerata dalla sinistra impigiamata, con i suoi affiliati che partecipano al bazar delle nomine smistate dall’ex presidente del sindacato delle toghe, si macchia di una impudicizia che non può passare inosservata al vertice dell’autorità statale.
Il Capo dello Stato Sergio Mattarella non può contemplare passivamente l’implosione di fiducia che trascina nel baratro del discredito la magistratura, ma deve interromperne la dissoluzione morale, estirpando la radice della corruzione e della politicizzazione di un organo che deve essere integro e impermeabile alle suggestioni ideologiche.