Donald Trump twitta: “Non c’è alcuna (zero!) speranza che il voto per posta non sia sostanzialmente una truffa”. Il presidente Usa si riferisce all’ipotesi per cui, in vista delle presidenziali 2020, alcuni Stati ricorrano alle urne “per corrispondenza”, per evitare assembramenti ai seggi. Un’opinione legittima dell’inquilino della Casa Bianca, il quale, comprensibilmente, teme l’impatto della pandemia sulla tornata elettorale.
Twitter, però, la pensa diversamente. E ignora l’uso dell’iperbole come figura retorica del discorso politico. Per il social fondato da Jack Dorsey, Trump ha diffuso una fake news. E come fa, Twitter, a emettere la sentenza inappellabile? Avvia il cosiddetto “fact checking”, citando fonti di stampa come Cnn e Washington Post. Sarebbe un po’ come se, per stabilire se Matteo Salvini è cattivo, consultassimo Corriere della Sera e Repubblica. Non ce lo dimentichiamo: un presidente può essere menzognero, ma possono esserlo pure i suoi censori. Basta selezionare ad arte le fonti e poi sostenere di aver condotto un’accurata verifica oggettiva.
Stiamo superando ogni limite: la storiella dei sovranisti che vincono le elezioni grazie alle bugie non è più soltanto il ritornello autoassolutorio della sinistra globalista a corto di argomenti. È, a sua volta, un motivo propagandistico che l’informazione a senso unico e i colossi della tecnologia stanno cercando di trasformare in verità assoluta. L’11 maggio scorso, Twitter aveva dichiarato che non avrebbe consentito l’uso della piattaforma per “manipolare o interferire nelle elezioni o in altri processi civici”. E poi cosa fa? Prende un cinguettio del presidente e spiega al mondo che è una balla, perché lo dicono i media ostili al presidente. Un paradosso: per evitare interferenze nelle elezioni, Twitter interferisce nelle elezioni. Trump, in ogni caso, è soggetto alle regole della democrazia: gli altri poteri lo controllano, l’opposizione lo tampina, gli elettori possono rispedirlo a casa. Chi controlla, invece Twitter? A chi risponde questa piattaforma? Quale forma di vigilanza democratica si può esercitare su di essa?
Per capire che queste non sono preoccupazioni peregrine, basta leggere Shoshana Zuboff e la sua descrizione del “capitalismo della sorveglianza”. Cioè, l’inquietante fase 4.0 di una civiltà in cui la condotta umana, quella che per Michael Oakeshott era libera per antonomasia, è diventata non soltanto un dato statistico da estrarre a scopi commerciali, ma addirittura una materia prima da plasmare e manipolare. Per i big del Web, noi siamo questo: comportamenti, non persone. E attenzione, non si tratta esclusivamente di pubblicità: anzi, meno l’utente si accorge di essere l’oggetto di un processo lucrativo, meglio riesce il trucco. I colossi di Internet hanno raffinato in modo maniacale la loro capacità di indurci ad avvertire questo o quel bisogno, a comprare questo o quel prodotto. Pensate se riuscissero anche a dirigere le nostre preferenze politiche. È il lobbying del futuro: non più limitato alla rete di relazioni formali e informali con i politici, semmai esteso alla capacità di mobilitare e indirizzare l’elettorato verso un candidato. George Orwell, scansati.