Nell’abbattimento del volo dell’Ukraine International Airlines PS752, in decollo dall’aeroporto Iman Khomeyni di Teheran, tra le 167 vittime 63 di loro avevano il doppio passaporto iraniano e canadese e questo è un dato che, alla luce delle notizie che sono poi state svelate nei giorni a seguire, acquista particolare importanza. Come ha ricordato David Turpin, presidente dell’Università dell’Alberta in Canada, nella lista delle vittime canadesi figurano almeno dieci membri della comunità accademica fra docenti, professori, studenti e ricercatori.
Oltre a Siavash Ghafouri Azar, trentacinque anni e Sara Mamani trentasei, che erano ingegneri, nella lista figurano anche Mojgan Daneshmand, quarantatre anni docente di Ingegneria all’Università dell’Alberta e suo marito Pedram Mousavi, quarantasette anni, professore di Ingegneria meccanica nello stesso ateneo. Con loro sull’aereo c’erano anche le figlie Dorina e Daria. Fin dal primo articolo su questa vicenda, avevamo ipotizzato cose che poi, con il passare delle ore, si sono rivelate vere. Siamo stati tra i primi ad avanzare pesanti dubbi sulle dichiarazioni iniziale del governo iraniano, che davano per scontato l’incidente tecnico o l’errore umano, dubbi da noi sollevati soprattutto dopo la pubblicazione del filmato da parte del giornale inglese Indipendent, dove, anche se non chiaramente, si vedevano dei missili che tracciavano il cielo al momento del decollo dell’aereo, e della fotografia di una delle parti dello stesso che presentava i segni di un’esplosione esterna tipica dell’abbattimento eseguito con razzi antiaereo.
Tutto confermato poi dal secondo filmato dove si vede bene la dinamica di quei terribili secondi. Quando prima di ammettere le proprie colpe il governo iraniano aveva dichiarato di non voler consegnare le scatole nere dell’aereo alla Boeing e poi, dopo l’ammissione di responsabilità, aveva fatto ripulire il sito del disastro nonostante la richiesta dell’Ucraina di poter inviare propri ispettori, avevamo ipotizzato che c’era probabilmente dell’altro, e magari anche di più grave, che il governo degli Ayatollah doveva assolutamente nascondere.
Considerando la catena di menzogne che hanno caratterizzato le dichiarazioni iraniane intorno a questa vicenda, e anche considerando che proprio in queste ore l’Iran sta perdendo uno a uno i suoi sponsor, quelli che l’hanno sempre difesa anche davanti all’indifendibile, è facile, perfino troppo facile, anche se non verrà mai confermato ufficialmente, che la nostra ipotesi, quella dell’abbattimento volontario, corrisponda poi a ciò che è successo nella realtà.
Ipotesi avvalorata ora da un nuovo video che dimostra che l’abbattimento dell’aereo passeggeri ucraino è stato eseguito lanciando due missili, uno a guida radar e uno all’infrarosso, a una distanza di trenta secondi l’uno dall’altro, da una base iraniana a circa 12 chilometri dall’aeroporto. In quei frangenti trenta secondi sono un tempo enorme, in trenta secondi l’operatore della contraerea poteva benissimo aver capito che il primo missile aveva fallito il bersaglio, osservando il tracciato di volo del Boeing si capisce che il pilota sentendosi minacciato aveva eseguito una strettissima virata, e solo a quel punto la contraerea aveva lanciato il secondo missile, quello che poi ha effettivamente abbattuto l’aereo. Sarà proprio la scatola nera, quella che gli iraniani ancora hanno in mano, che potrebbe, se non danneggiata volontariamente, confermare se è proprio così che sono andati i fatti.
Se anche diversi paesi europei, proprio quelli che hanno fatto di tutto pur di salvare l’intesa sul nucleare iraniano, ad esempio creando Instex uno strumento finanziario per aggirare le sanzioni americane che anche non è mai entrato a regime è riuscito solo a indispettire la Casa Bianca, stanno prendendo le distanze da Teheran, una ragione molto valida deve esserci. E anche se Francia, Gran Bretagna e Germania ribadiscono la volontà di salvare l’Accordo del 2015 sul nucleare iraniano, stanno in queste ore prendendo le distanze dall’Iran accusando Teheran di violazioni e, appellandosi al paragrafo 36 dell’intesa, aprono la possibilità a nuove sanzioni e questa volta da parte delle Nazioni Unite, qualcosa di davvero importante deve essere accaduto.
Prova ne è che proprio in queste ore, ne dà notizia il quotidiano israeliano in lingua inglese The Times of Israel, Hassan Rouhani, il presidente dell’Iran, ha avvertito, e più che un avvertimento sembra una minaccia, che i soldati europei nel Medio Oriente potrebbero essere in pericolo dopo che le tre nazioni hanno sfidato Teheran a superare i limiti del suo accordo nucleare. Come mai questo rapido cambiamento di rotta politica da parte di Londra, Parigi e Berlino? Non è per caso che in quelle cancellerie, e anche a Bruxelles, hanno la certezza su quelle che per noi sono al momento solo credibili ipotesi? E se veramente si è trattato di un abbattimento volontario, quale è stato il motivo che ha portato il mirino dell’antiaerea proprio su quel volo? Fra le varie teorie che avevo ipotizzato c’era quella dell’eliminazione di una o più persone che nel mio articolo del 9 gennaio avevo definito “sensibili”.
Per la precisione avevo scritto: “Secondo vari organi di stampa a bordo dell’aereo avevano preso posto 82 iraniani, 63 canadesi, 11 ucraini, 10 svedesi, 4 afghani, 3 tedeschi e 3 britannici, i nomi sono ancora un mistero anche se sarebbe bello capire se tra di loro c’era qualche personaggio diciamo “sensibile”, e per sensibile intendiamo qualcuno che per quello che faceva o per quello che sapeva poteva essere un potenziale obbiettivo”.
Ora però che conosciamo i nomi e le loro professioni, scopriamo che nella lista delle vittime figurano almeno dieci membri della comunità accademica, studenti e ricercatori, che due delle vittime Siavash Ghafouri Azar e Sara Mamani erano ingegneri e che Mojgan Daneshmand era docente di Ingegneria all’Università dell’Alberta e suo marito Pedram Mousavi era professore di Ingegneria meccanica nella stessa Università. Questi nomi potevano essere sensibili? Chi avevano incontrato durante il loro soggiorno a Teheran? Con chi avevano parlato? Non è per caso che, magari, avevano bevuto un tè con qualche loro collega e che delle informazioni, o peggio dei documenti, erano passati di bocca in bocca o di mano in mano? Indagini di questo tipo si possono solo ipotizzare, considerando però il maldestro depistaggio e le prese di distanza da parte di chi fino a ieri avrebbe fatto di tutto pur di salvare il business, il puzzle prende forma e rivela quanto di marcio c’è nella dittatura iraniana.
Anche se è vero che pecunia non olet, sembra che in questo caso il puzzo che sale dopo l’arresto della persona che aveva ripreso il primo filmato sull’abbattimento del Boeing e lo aveva mandato all’estero, dopo i ricatti alle famiglie delle vittime che per poter riavere i corpi dei loro famigliari avrebbero dovuto impegnarsi a non rilasciare alcuna dichiarazione alla stampa internazionale, dopo le esecuzioni di piazza, dopo le cento donne impiccate durante la presidenza Rouhani, dopo gli oltre duemila manifestanti uccisi dalla polizia iraniana durante le manifestazioni di protesta, dopo le reiterate minacce di distruzione di Israele e l’espansione militare dei Pasdaran iraniani in Iraq e Siria che, arrivando al ridosso dello Stato Ebraico creano la situazione di criticità perfetta al limite dello scontro armato.
La puzza, dicevo, ormai non passa più inosservata e anche le più importanti nazioni europee rinunciano ora alla pecunia pur di non cominciare a puzzare anche loro, perché se dovesse uscire la verità, come noi speriamo, tutto il profumo prodotto sulla Côte d’Azur non basterebbe a coprirne il lezzo.
Michael Sfaradi, 16 gennaio 2020