Società

È tornata Laura Boldrini: ecco la mossa per la “parità” nella lingua

Boldrini linguaggio © inspireus tramite Canva.com

“Le femministe sono diventate non dico barocche ma rococò. Adesso badano solo al linguaggio (…). Sembra che queste femministe, italiane almeno, per lo più si attacchino molto alle parole e soprattutto che cerchino più che altro lo scandaletto quotidiano ‘quello ha detto’, ‘quello ha fatto’, che è un po’ la cultura dei social”. Questo è quanto aveva detto la scrittrice Barbara Alberti a La Confessione di Peter Gomez nel 2021.

Parole che hanno trovato conferma nella nuova crociata femminista sul linguaggio di genere, avvenuta di recente in Parlamento. Una polemica mossa contro il centrodestra, visto che quest’ultimo si rivolge alle senatrici utilizzando il maschile. In 76 tra senatori e senatrici dell’opposizione hanno firmato una lettera consegnata al presidente di Palazzo Madama, Ignazio La Russa. La promotrice dell’iniziativa è stata la senatrice di alleanza Verdi e Sinistra Aurora Floridia, la quale ha spiegato il motivo di questa iniziativa: “In commissione Esteri ho più volte chiesto di essere chiamata senatrice, ma la presidente ha ignorato la mia richiesta”. Una richiesta che è chiara: in Aula e nelle commissioni parlamentari deve essere “sempre garantito il rispetto del linguaggio di genere” e “riconosciuto il diritto di ogni senatrice ad essere chiamata senatrice e non senatore”.

Per questo motivo, Floridia ha deciso di scrivere un appello ufficiale e presentarlo alla presidenza del Senato. Con lei, hanno firmato gli interi gruppi di Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, oltre a singole firme raccolte tra Italia Viva, Azione e le Autonomie. E lo stesso è avvenuto alla Camera, con la “rivolta” capitanata da Laura Boldrini. “Hanno fatto bene le 76 senatrici e senatori a inviare una lettera al Presidente del Senato Ignazio La Russa per chiedere che, nei lavori d’aula, nelle commissioni e in tutti gli altri organi, venga rispettato il linguaggio di genere”, ha detto l’ex presidente di Montecitorio, “È una battaglia che mi è molto cara, com’è noto, perché sono convinta che la parità di genere, l’affermazione delle donne, il loro empowerment passino anche dal racconto della loro presenza nella società. E questo avviene anche declinando al femminile ruoli, cariche, professioni e incarichi che per troppo tempo sono stati appannaggio unico degli uomini. Perché ciò che non si nomina, non esiste e non è riconosciuto”. Da qui la decisione di promuovere una lettere a Lorenzo Fontana “con la quale si chiede di dare nuovo slancio a quell’impegno ribadendo a deputati e deputate la necessità di declinare al femminile titoli e ruoli ricoperti dalle donne”. Già raccolte 136 firme.

Tutto questo perché il linguaggio di genere sarebbe uno strumento fondamentale nella battaglia comune per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ma è solo un femminismo ossessionato dal linguaggio, quindi dalla forma, e sempre più distante dalla sostanza ossia dalla risoluzione dei problemi che affliggono l’universo in rosa: dal lavoro alla famiglia, dalla sicurezza alla mercificazione del corpo della donna, maternità surrogata in primis. Un femminismo, o presunto tale, degenerato in una dichiarazione di guerra contro il maschio bianco etero, anziché concentrato nella lotta volta a garantire la parità uomo – donna. Obiettivo, quest’ultimo, che era stato la ragion d’essere della nascita del femminismo.

Un femminismo che, infatti, prese forma nell’800 in Gran Bretagna con le suffragette, donne che lottavano per la rivendicazione dei diritti politici come l’allargamento del suffragio – cioè del diritto di voto – anche all’universo in rosa. Una lotta che da politica divenne sociale, come successo negli anni ‘60 del ‘900 negli Stati Uniti. Battaglie in rosa dove, infatti, venivano affrontati temi ritenuti scandalosi: dalla sessualità allo stupro, dalla violenza domestica ai diritti riproduttivi fino alla parità di genere sul posto di lavoro. Una fase che coinvolse anche l’Italia, dove il movimento femminista conseguì una serie di vittorie, come la legge per il divorzio (1970), quella sulla regolamentazione dell’aborto (1978). Nel 1975 toccò al il diritto di famiglia, dove fu rimosso l’adulterio dagli atti penali perseguibili e i partner maschili e femminili in un matrimonio furono di fatto considerati uguali di fronte alla legge.

Nel 1981 un’altra vittoria: l’abrogazione del delitto d’onore. Negli anni Novanta, le femministe continuarono a lottare contro il divario salariale tra uomini e donne e contro le molestie sul lavoro. Ma, in seguito, seguirono delle spaccature su vari temi, quali la prostituzione e la pornografia. Infatti, negli anni ‘70 e ’80, la maggior parte delle femministe si era schierata contro ogni forma di sfruttamento del corpo femminile, alle soglie del nuovo millennio, invece, non mancarono posizioni meno radicali. Un femminismo che, col passare del tempo, ha assunto voci sempre più discordanti fino ad arrivare alla nascita del transfemminismo, un movimento che segna la morte del femminismo: quest’ultimo, infatti, nato in funzione della difesa della donna, mentre il transfemminismo mira a cancellarne l’esistenza, in quanto ritiene che i ruoli di genere siano una costruzione sociale utilizzata come strumento di oppressione.

Un’ideologia contro l’assegnazione arbitraria del genere alla nascita, in quanto espressione di un sistema di potere che gestisce i corpi, per adattarli all’ordine sociale stabilito. Uno scenario, quello appena descritto, da cui emerge un femminismo sempre più frammentato e snaturato, dove alla sostanza si è sostituita la forma e al rosa è subentrato l’arcobaleno.

Nemes Sicari, 20 dicembre 2023

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