Scrivere bene? No. Scrivere cose vere? Nemmeno. Deontologia? Macchè. La priorità per un buon giornalista è scrivere in maniera inclusiva. No, non è una boutade o una sparata di qualche pericoloso conservatore, ma purtroppo si tratta della realtà dei fatti. L’ultima follia woke riguarda il Corriere della Sera, dove i giornalisti sono stati costretti a seguire un corso online dedicato al linguaggio inclusivo. In altri termini: come chiamare i trans, come chiamare i neri, sessismo e non sessismo, maschile sovraesteso e tutte le altre stupidaggini che interessano a pochi, perlopiù a sinistra.
Come riportato dal Dagospia, il corso serve per apprendere un “uso non sessista della lingua italiana” e per “evitare l’uso del maschile sovraesteso”. Poi, la lezioncina woke evidenzia che i “Gender Bias sono distorsioni mentali in base alle quali, per esempio, in fase di assunzione si preferisce un uomo a una donna” oppure in base alle quali qualcuno ancora utilizza i termini “signorina e signora” anziché il cognome. In poche parole, se non conosci il nome del tuo interlocutore sei finito. O finita, prima che qualcuno si offenda.
Ai giornalisti del Corriere è stato consigliato di porre attenzione ai titoli utilizzati. Tra gli esempi uno che ha scatenato un putiferio sui social nel corso delle ultime Olimpiadi: “Italia oro nella spada squadre, francesi battute in casa. Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma”. Ecco la versione politicamente iper-corretta: “Le atlete Rossella Fiamingo, Alberta Santuccio, Giulia Rizzi e Maria Navarria medaglia d’oro a Parigi 2024 nella spada a squadre. Francesi battute in casa”. Woke batte fantasia e stile tre a zero, partita senza appello. Con buona pace della qualità della penna.
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Nell’epoca woke hanno acquisito grande importanza le presunte micro-aggressioni, quelle che un tempo sarebbero state definite normali discussioni tra colleghi. Ebbene, il corso sostenuto dai cronisti del Corriere classifica come micro-aggressione l’uomo che siede a gambe spalancate, che deriva “dall’educazione sottostante agli uomini di dominare lo spazio, occupare tutto il mondo che ti circonda. Le donne, invece, sono educate sin da piccole a parlare con gentilezza”. Ripetiamo: non è uno scherzo o una burla. Anzi, rilanciamo: “I maschi usano il tone-policy solo contro le donne, non dicono mai a un collega maschio di abbassare il tono”. Naturalmente bisogna classificare come micro-aggressione un complimento non richiesto. Robe da matti.
Ed eccoci forse alla parte più divertente, il trionfo del woke. Parliamo dei termini da non utilizzare. Ovviamente la priorità va ai femminili professionali, come ingegnera e assessora. La formula Boldrini in poche parole. Se una donna chiede di essere chiamata con maschile professionale “questo è perché si usa il maschile in professioni considerate prestigiose e il femminile in professioni considerate non prestigiose come cuoca o cassiera”. Beatrice Venezi, questo è per lei. Arriviamo al genere e la prima indicazione è quello di raddoppiarlo (“Cari colleghi e care colleghe…”) oppure ricorrere agli strumenti prediletti dei seguaci del risveglio, ossia la schwa o l’asterisco.
A proposito di genere, bisogna tenere presente la distinzione con il sesso. Dunque i transgender sono persone la cui identità di genere “non corrisponde al sesso assegnato alla nascita” e perciòsi può scrivere “persona trans” ma guai a utilizzare “il trans”, da considerare una vera e propria offesa. Ed ecco il termine queer, “definizione ombrello per tutte le identità di genere che non corrispondono al sesso assegnato alla nascita”. Genuflessione totale alla comunità arcobaleno, ma chi può dirsi sorpreso? Guai poi a fare riferimento all’età delle persone – non si può parlare di giovani e anziani, non è inclusivo – mentre per i neri ci sono dei diktat chiari: “la parola con la n che finisce per o meglio non pronunciarla mai”, di colore non va troppo bene perché “definisce tutte le persone non bianche”, quindi solo “nero” o “persona afrodiscendente” (23 caratteri).
Probabilmente molti giornalisti del Corriere saranno d’accordo con il vademecum woke, ma siamo liberi di dire che si tratta di una fesseria sesquipedale. Perché è proprio questa esasperazione a creare malumori, forzature inutili e il più delle volte controproducenti. Fa davvero tutta la differenza di questo mondo dire “ciao a tutti” e non “ciao a tutti e tutte”? Può davvero avere senso definire una persona di colore “persona afrodiscendente”? Più che inclusivo, sembra una presa in giro. Ma la religione woke non conosce vergogna…
Franco Lodige, 23 novembre 2024
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