A una manciata di giorni dal voto per le elezioni presidenziali Usa, mentre tutte le principali testate parlano di equilibrio e incertezza, alcuni segnali possono far pendere (e anche di molto) la bilancia elettorale verso Donald Trump.
Vediamo quali:
1 – I numeri
Nella stragrande maggioranza dei sondaggi Trump è dato in leggero vantaggio. In alcuni non solo al congresso, ma anche nel voto popolare. Una forbice certamente non ampia, tuttavia bisogna ricordare che una fetta abbastanza consistente del suo elettorato sfugge ai poll. Basti pensare come nel 2016 Hillary Clinton era già incoronata da tutti i principali media che, in base ai sondaggi, le attestavano una win probability intorno al 93%. È vero, i tempi sono cambiati, ma la componente di elettori “low profile” per Trump è sempre molto significativa.
2 – La comunicazione
A livello comunicativo, il successo del tycoon e la sua leadership verso queste presidenziali sono davvero difficili da contestare. Online, ha numeri impressionanti: su Tiktok, social che Trump ha in passato minacciato di chiudere, ha praticamente doppiato Kamala Harris (12.6 mln di follower contro i 6.5 della candidata dem). Su Instagram 27 mln contro 18. È vero, le elezioni non si vincono sui social, ma anche offline Donald riesce a costruire dei tormentoni cavalcando gli errori comunicativi dei dem: Biden dice che gli elettori di Trump sono spazzatura? Lui fa brandizzare un camion della nettezza urbana e ci sale su, girando per Green Bay. Kamala? Non pervenuta.
3 – La grinta e lo charme del tycoon
Innegabile che uno dei punti di forza della campagna di Trump e del suo crescente consenso siano il suo carisma e la capacità di convertire e capitalizzare episodi a lui sfavorevoli in occasioni per far parlare di sé. Il momento più iconico di questa campagna elettorale, che passerà alla storia, è quello di un candidato miracolosamente sopravvissuto ad un attentato per pochi centimetri, che si rialza grondante sangue da un orecchio, si smarca dalla security e alzando il pugno al cielo aizza la folla gridando “Fight! Fight! Fight!”. Come a voler dire “mi avete quasi ucciso, ma non mi avete fatto niente”. Insomma, ci vuole fegato. E Donald Trump ne ha.
4 – L’inettitudine dem
I democratici hanno affrontato questa campagna elettorale con una passività incomprensibile. Prima hanno legittimato la ricandidatura di Joe Biden, chiaramente e visibilmente non in grado di intraprendere un secondo mandato. Successivamente, probabilmente consapevoli dell’errore commesso, non hanno puntato su una candidatura forte e di spicco (forse perché nessuno dei top player all’interno del partito si è voluto assumere il rischio di giocarsi la Casa Bianca in una manciata di mesi e con il terreno già gravemente compromesso da Sleepy Joe). Kamala, più che una candidata forte e credibile, ha sempre dato la sensazione di essere l’agnello sacrificale.
5 – L’eterogeneità dei suoi elettori
Trump è certamente amato e odiato. Ma è trasversale: arriva a toccare tutte le fasce della popolazione e, sebbene come da tradizione repubblicana non farà breccia nella west coast, non piace solo ai classici elettori dell’elefante. È adorato dai latinos (che potrebbero essere l’ago della bilancia in Nevada e Arizona), è capillare su tutte le religioni e, nonostante le sue posizioni su Israele, anche una discreta fetta di islamici voterà per lui.
6 – L’inadeguatezza di Harris
Perché Kamala? È davvero la migliore carta che i dem potevano giocare dopo il forfait di Biden? Riprendendo il punto 4, probabilmente no. Secondo sondaggi di Daily Mail, Usa Today e Suffolk University bisogna andare a ritroso di decenni per trovare un vice presidente con un indice di gradimento basso come quello di Harris: nel 2021 il suo indice di gradimento come vice presidente era al 28%. Neanche Dick Cheney, vice presidente di Bush, si era spinto così in basso.
Insomma Kamala ha deluso come vice presidente e una riflessione sulla candidatura sarebbe stata fisiologica, ma non è avvenuta perché il treno delle elezioni era già in corsa quando Joe Biden è sceso. Basteranno i tiepidi endorsement di Obama e consorte, finito l’hype delle prime settimane post rinuncia di Biden? Pare di no.
7 – La terza incomoda: Jill Stein
A rompere ulteriormente le uova nel paniere dem c’è Jill Stein: 74 anni, con posizioni radicali, filopalestinese, leader dei Verdi. Ovviamente, la sua corsa alla Casa Bianca si limiterà al raggiungimento di pochi punti percentuali. Il problema per i dem è uno e uno solo: quei punti percentuali non li ruba al tycoon, ma a Kamala Harris. Un esempio su tutti: la democratica doveva sbancare i voti della comunità islamica, ma le sue posizioni democristiane sulla questione Israelo-palestinese hanno fatto precipitare il suo gradimento, spingendo tantissimi islamici a votare per Jill Stein. I sondaggi sono impietosi: la candidata verde è al momento la prima scelta per la comunità islamica. Preferenze che servirebbero moltissimo a Kamala Harris negli swing states, ma che stanno sfumando.
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8 – Il fido scudiero: Elon Musk
Nella corsa alla Casa Bianca, in queste ultime settimane Trump ha potuto contare sul supporto dell’uomo più ricco del mondo, Elon Musk. Il patron di Tesla e SpaceX, come sappiamo, è schierato al fianco di Trump e gli ha garantito totale supporto, non soltanto per interessi economici, ma anche ideologici. Così Musk negli scorsi giorni a Pittsburgh: “Aumentare drammaticamente il mio rischio di essere assassinato e impegnarmi in politica non è quello che voglio fare, ma la posta in gioco è così alta che sento di non avere altra scelta se non quella di farlo”. Certamente, questa sinergia potrebbe tradursi in ottimi affari per Musk (con Trump che in caso di vittoria gli ha già assicurato un posto nel suo gabinetto), ma pare che realmente da parte del magnate ci sia un entente cordiale che va oltre il mero aspetto economico. Dopotutto Elon è un grande liberale che da anni combatte per il free speech e contro i movimenti woke e altri abomini culturali, esattamente come Trump.
9 – Il vice perfetto: JD Vance
I feticisti maratoneti delle elezioni americane che hanno visto il debate dei candidati vice-presidente, avranno certamente notato la competenza e il garbo di JD Vance: il numero due di Trump, dipinto alla vigilia come un mostro retrivo e reazionario, si sta distinguendo in questa campagna elettorale come un equilibrato e moderato oratore. A tal punto che in più occasioni Trump ha puntato i piedi, quasi a voler rimarcare di essere lui il protagonista. Di tutto altro assetto Tim Waltz, il vice designato di Kamala Harris. Scelto per la sua dialettica e per la sua esperienza, si è dimostrato assai impacciato nei suoi comizi ed è stato surclassato da Vance durante il debate.
10 – Ha già vinto le presidenziali
Trump è già stato presidente, vincendo delle elezioni nelle quali era dato per spacciato. E ha rischiato di rivincere nel 2020 nonostante la pandemia di Covid che ha ovviamente compromesso il suo percorso elettorale. Ha condotto questa campagna elettorale, almeno fino ad oggi, in maniera ottima, difettando spesso di contenuti ma costruendo un’immagine sempre crescente e credibile agli occhi delle comunità che vuole conquistare. La nonchalance con la quale si muove è innegabile rispetto alla compostezza e alla mascherata timidezza di Harris. Sicurezza e autoreferenzialità sono due caratteristiche che l’elettore medio americano ha sempre amato. L’esperienza di Trump potrà costituire un altro tassello utile a farlo tornare alla Casa Bianca.
Alessandro Bonelli, 31 ottobre 2024
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