L’immagine simbolo del fallimento obamiano in campo economico, lo ricorderanno tutti coloro che non lo hanno voluto dimenticare, ritraeva gli impiegati e i funzionari della Lehman Brothers Holdings Inc. che mettevano le loro cose dentro ai cartoni prima di abbandonare per sempre quelli che erano stati i loro uffici. Destino diverso però fu riservato alla banca d’affari Bear Stearn che fu salvata dal fallimento e assorbita da Jp Morgan, mentre una settimana prima del crack della Lehman si decise di nazionalizzare Fannie Mae e Freddie Mac, colossi del credito immobiliare.
Perché alcuni istituti furono salvati e solo una banca lasciata morire, rimane un quesito che nel tempo ha sì avuto alcune risposte, nessuna delle quali però è mai riuscita ad essere convincente. L’immagine simbolo del fallimento obamiano in campo militare è, senza dubbio, la fotografia scattata da uno dei Pasdaran iraniani dove si vedono una decina di marines americani in ginocchio e con le mani alzate sotto il tiro degli AK 47 dei guardiani della rivoluzione. Nonostante i forti dubbi sull’operato di quel Presidente, sarà compito degli storici delineare un’amministrazione che ha guidato per ben otto anni la più grande democrazia al mondo, lasciando dietro di sé macerie, sangue e confusione internazionale.
C’è solo da sperare che gli storici facciano il loro lavoro dopo che tutti gli armadi degli scheletri saranno stati aperti, a cominciare dal linciaggio dell’Ambasciatore Stevens a Bengasi per finire con le varie primavere arabe, passando anche all’attacco francese alla Libia che diede il via alla rivoluzione che depose Gheddafi e mise il caos al suo posto. Quando durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 il candidato repubblicano Donald Trump, che poi è diventato il 45º Presidente degli Stati Uniti, aveva come motto “Make America Great Again” (facciamo di nuovo grande l’America), sapeva bene che avrebbe dovuto ricostruire una nazione dalle macerie, soprattutto in politica internazionale, lasciate dal suo predecessore e, a distanza di tre anni, non si può dire che non abbia fatto ciò che aveva promesso durante la sua campagna elettorale.
Impeachment a parte, farsa in salsa “democratica” ad uso e consumo della campagna elettorale per le presidenziali del 2020, che tutti sanno non avrà seguito perché al senato la maggioranza è repubblicana, la borsa che vola e l’economia statunitense, associate al minor tasso di disoccupazione interno registrato negli ultimi decenni, hanno fatto capire che gli USA sono tornati ad essere una delle locomotive del mondo, ma l’America grande la si vede soprattutto in politica estera. L’ultimo esempio di come gli USA e le sue Forze Armate pretendano rispetto, lo abbiamo avuto il 29 dicembre scorso quando una trentina di F 15 della USAF hanno colpito 5 obbiettivi 3 in Iraq e 2 in Siria dove almeno 25 combattenti di Hezbollah, sostenuto dall’Iran, sono stati uccisi.
In quest’articolo potete vedere il filmato di uno dei bombardamenti.
Lo strike è stata la risposta ferma e decisa che il Pentagono ha voluto dare agli autori dell’attacco missilistico che due giorni prima aveva colpito la base USA di Kirkuk. Durante il quale erano stati lanciati contro le postazioni americane una trentina di missili. Il risultato è stato che un contractor civile statunitense è stato ucciso e altri militari americani e iracheni sono rimasti feriti. La risposta americana si è concretizzata con tre attacchi aerei in Iraq durante i quali almeno quattro comandanti locali del gruppo musulmano sciita appoggiato dall’Iran hanno perso la vita. Uno dei bombardamenti ha anche preso di mira, distruggendolo, il quartier generale del gruppo della milizia vicino al distretto occidentale di al-Qa’im al confine con la Siria.
Nei siti colpiti c’erano strutture adibite al deposito di armi e i comandi dai quali Kata’ib Hezbollah aveva pianificato gli attacchi contro le forze della coalizione. Anche se Hezbollah, responsabile materiale, è stato duramente colpito, le dichiarazioni del Segretario di Stato Mike Pompeo non lasciano dubbi su chi manovra dietro le quinte e, di conseguenza, è stato il mandante del primo attacco contro le truppe americane e irakene di stanza a Kirkuk. “Non permetteremo che la Repubblica islamica dell’Iran intraprenda azioni che mettano in pericolo uomini e donne americani”, ha detto Pompeo ai giornalisti dopo il briefing, che si è svolto presso il club Mar-a-Lago in Florida.
Alle dichiarazioni di Pompeo ha fatto eco il segretario alla Difesa Mark Esper, che oltre a confermare che i bombardamenti hanno avuto successo ha anche dichiarato che durante la riunione sono state discusse con il Presidente Trump altre opzioni militari da eseguire in caso di escalation della tensione nella regione. Sicuramente l’America è cambiata, e l’immagine dei marines impauriti davanti ai fucili degli iraniani è ormai sbiadita. Chi ama il mondo libero da una parte vuole dimenticare ciò che accadde allora, e dall’altra spera che una situazione del genere non debba mai più ripetersi.
Rimane che gli attriti degli ultimi giorni fra Usa e Iran sono una spia accesa su tutto il Medioriente. Di casi più o meno gravi ce ne sono stati molti negli ultimi mesi e la speranza è che la ragione faccia tornare chi di dovere ai tavoli di trattativa perché allo stato attuale delle cose la domanda non è se ci sarà uno scontro aperto fra Iran e Usa, ma quando.
Michael Sfaradi, 1 gennaio 2020