La richiesta da parte dell’Agenzia delle entrate di informazioni fiscali su circa diecimila italiani con i conticini al Credit Suisse, ha avuto comprensibile grande eco mediatica. La banca svizzera ha chiuso recentemente i conti con il Fisco italiano, grazie ad una serie di patteggiamenti che hanno permesso di incassare circa 110 milioni di euro.
Ma adesso, sembrerebbe, è il turno dei singoli rimasti fuori da quella inchiesta.
Il meccanismo sembrava perfetto. I contribuenti italiani sfuggivano al fisco vorace stipulando polizze assicurative, praticamente esentasse, che sottintendevano una gestione del risparmio, e si appoggiavano a conti off-shore.
Le banche da parte loro, non solo il Credit Suisse, avevano un doppio vantaggio: beccavano commissioni per la parte gestione e per la componente assicurativa. Si poteva ritenere il prezzo dello scudo fiscale fai da te. Più o meno la tesi con cui la Procura di Milano e la dottrina Greco, pragmatico e senza troppe sottigliezze, ha incassato tasse eluse\evase.
Ma torniamo ai nostri diecimila. Diciamo subito, e poi spiegheremo, che dovrebbero dormire sonni non troppo agitati. Dal febbraio del 2015 la nostra amministrazione finanziaria e quella elvetica si possono scambiare informazioni fiscali sui contribuenti. Se inoltre c’è l’ipotesi di un reato, grazie ad una convenzione Ocse approvata da Berna, si può andare indietro fino al gennaio del 2014.
La richiesta di gruppo fatta dunque dalla nostra amministrazione, non solo è ovviamente legittima, ma era perfettamente prevedibile da parte di coloro che erano stati pizzicati con un conto al Credit Suisse.
Insomma come dire ad un furfante che voglia rapinare una banca, che la polizia ha il suo nome, cognome, indirizzo e che ha per di più ha piazzato in banca i servizi segreti.
Difficile pensare che quel furto si farà. Si potrebbe obiettare che la richiesta di oggi riguarda una frode fiscale fatta ieri, e dunque rappresenti il principio di un processo che porti ad una sanzione.
E anche questo è sbagliato. I diecimila con le polizze off shore hanno avuto a disposizione quel condono, che così non si può chiamare perché approvato dalla sinistra, che si chiama voluntary disclosure.
Insomma i nostri potenziali truffatori si potevano mettere in regola con la giustizia terrena e quella del fisco autonomamente, dopo che erano stati beccati con le mani nella marmellata.
La richiesta di scambio di informazioni di cui parliamo oggi, dimostra infatti che il nostro Fisco conosceva la procedura collettiva, ma è alla ricerca dei singoli. I quali non essendo stati ancora coinvolti in un procedimento potevano agevolmente scudarsi: certo pagando.
Queste cose che scriviamo sono ben note all’attuale capo dell’Agenzia delle entrate, Enrico Ruffini, che ha un passato da professionista tributarista. E che dunque conosce i due lati della scrivania.
E allora perché tanto clamore? Vista la potenziale inefficacia verso i diecimila, che se non sono pazzi si sono già messi in regola, esiste il non disprezzabile effetto annuncio.
Tra dieci giorni scadono i termini per aderire alla riedizione della Voluntary disclosure, la numero due.
Se il fisco mostra la faccia feroce, c’è da sperare che qualcuno, spaventato dalle grida, si metta in regola. Ogni condono dei quattrini all’estero, a partire dal primo scudo fiscale, portava con sé un inasprimento delle sanzioni su ciò che si andava a condonare. Insomma la paura di essere beccati e la batosta che si può attendere sono un formidabile strumento di marketing fiscale.
Il tesoro inoltre ha bisogno di questo gettito come il pane. Il precedente condono ha reso 4 miliardi e fatto emergere 60 miliardi di imponibile all’estero; ben più misere le previsioni per questa seconda edizione che si sperava generasse introoiti per 1,6 miliardi, ma rischia di portare si e no 500 milioni.
Se così fosse sarebbe un flop. Che deriva da due fattori.
1) Il primo è che molto è stato già riportato in italia anche grazie alla cancellazione di fatto del segreto fiscale con la Svizzera.
2) Il secondo è che la killer application per farlo volare non è stata approvata. Era una tassazione forfettaria (si ipotizzava del 35 per cento) del contante detenuto (ad esempio in cassetta di sicurezza). La voluntary bis, per un professionista, applica le imposte personali, l’Iva e le sanzioni ridotte sul contante e tutto ciò porta la tassazione circa all’80 per cento.
Il nostro non è un giudizio di valore, ma tecnico: se si volevano fare emergere i contanti in nero, è quasi impossibile riuscirci con questa tassazione.
Nicola Porro, Il Giornale 22 luglio 2017