Che la permanenza di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi non sia scontata è ormai più che un semplice sospetto. Ha sorpreso, a tal proposito, che qualche giorno fa il premier sia stato duramente criticato dal giurista Sabino Cassese – un nome che è sinonimo di deep state. In un’intervista al Dubbio, l’ex giudice costituzionale, king maker della presidente Marta Cartabia e molto in sintonia con Sergio Mattarella, ha addirittura definito “fuori legge” il primo decreto sul lockdown. Delle sbavature normative ha incolpato gli uffici legislativi della presidenza del Consiglio, ma ha aggiunto sprezzantemente che un avvocato “avrebbe dovuto bocciare chi gli sportava alla firma un provvedimento di quel tipo”, anziché abusare dei Dpcm, esautorando il ministero della Salute e soprattutto usurpando le prerogative del Colle.
È significativo anche che la stroncatura sia arrivata dalle colonne del quotidiano edito dai colleghi avvocati di Conte, ossia dal Consiglio nazionale forense, di cui è stato presidente il mentore di Giuseppi, Guido Alpa – pure lui in ottimi rapporti con Cassese. Insomma, l’impressione è che, dietro le rimostranze del giurista, si celi l’insofferenza dei palazzi che contano, dal Quirinale alla Consulta. Ovvero, di quell’élite che pure nell’avvocato del popolo aveva visto un utile argine all’avanzata sovranista.
Perché i poteri forti gli stanno alienando il loro consenso? Perché, nel pieno dell’emergenza, che pareva averlo reso intoccabile, qualcuno potrebbe apparecchiare il siluramento di Conte?
1. Giuseppi naviga a vista. Il Paese non risorgerà con i 600 euro alle partite Iva. E nemmeno con il decreto Liquidità: è utopistico pensare che gli imprenditori abbiano voglia di indebitarsi ancora, a Paese bloccato, tanto più che l’erogazione dei mutui, niente affatto a fondo perduto, sarebbe subordinata alla morsa delle valutazioni bancarie di solvibilità. Conte non ha un piano, non ha un pacchetto, sia pure abbozzato, con cui alzare la posta in Europa. E questo vuoto pneumatico non può essere occultato dalla moltiplicazione delle task force, che hanno origini e attribuzioni poco chiare e soprattutto paiono essere state mal digerite dallo stesso premier. Vittorio Colao, ad esempio, gli è stato imposto da Sergio Mattarella. Tant’è che Matteo Renzi ha subito utilizzato il super manager per pungolare la leadership di Giuseppi: più che affiancarlo, la task force pare debba metterlo sotto tutela. L’establishment, d’altronde, è perfettamente consapevole che l’economia è una patata bollente: il Viminale ha recentemente diramato una circolare per avvisare i prefetti del rischio di “gravi tensioni sociali”, connesse alla nerissima recessione che si va profilando.
2. Giuseppi ha irritato il Quirinale. Mattarella aveva invocato una sorta di tregua istituzionale, che forse era l’unica strada per evitare il governissimo di unità nazionale. E il premier, caricato a molla da Rocco Casalino, questa tregua l’ha rotta, usando la sua conferenza stampa per minacciare l’opposizione. Peraltro, così l’avvocato ha servito un assist a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, riportandoli improvvisamente al centro della scena: affinché cuocessero nel loro brodo, era molto più utile tenere i toni bassi, proprio come voleva il presidente della Repubblica. A ciò s’è aggiunta la bomba di Franco Bechis, che sul Tempo ha rivelato come Palazzo Chigi si sia procurato per tempo mascherine, gel igienizzanti e persino bombole d’ossigeno, mentre i medici venivano mandati al massacro. Lo scoop è stato addomesticato, ma il capo dello Stato non potrà difendere l’indifendibile in eterno.
3. Giuseppi non s’è ancora piegato al trappolone del Mes. Non per idealismo né per coraggio. È che sul Salva Stati, Conte si gioca la faccia. Ma il gioco è comunque perdente: se dice di sì al prestito, il premier offre all’opposizione un altro gol a porta vuota; se dice di no, si attira le ire di mezza maggioranza. Il cui piano è cristallino: aderire al Mes serve a neutralizzare la minaccia sovranista. Quand’anche, infatti, Lega e Fratelli d’Italia vincessero future elezioni, il coltello dalla parte del manico ce l’avrebbero i creditori. Le condizionalità soft durerebbero fintantoché a Roma ci fosse un esecutivo gradito. Poi, di scuse per ribaltare la frittata e trasformarci nella Grecia 2, ce ne sarebbero in abbondanza.
Per adesso, Conte prende tempo. Addirittura, prova a passare la palla al Parlamento, di cui finora s’era bellamente infischiato. Ma la sensazione è che se non accetterà di ricorrere ai 37 miliardi del Fondo, chi vuole lanciare un’ipoteca sul Paese non si farà scrupoli a sostituirlo con un’altra figura, bendisposta a saltare nel fossato. Tutto l’establishment, quello così bene incarnato da Cassese, tifa per il Mes. E c’è da scommettere che anche in questa partita, un ruolo fondamentale lo giocherà il Quirinale.
Alessandro Rico, 16 aprile 2020