I mercati finanziari sono crollati per il semplice annuncio di qualcosa che attendevano chiaramente, ovvero l’annuncio dei prossimi aumenti dei tassi di interesse da parte della Bce. Giovedì la Banca Centrale Europea è riuscita ad enfatizzare solo gli aspetti negativi della sua politica monetaria. L’argomento che stava più a cuore ai mercati non era tanto la manovra sul costo del denaro, ma piuttosto la predisposizione del cosiddetto “scudo anti-spread“. E in effetti la presidente Lagarde ha confermato che la Bce è pronta a muoversi in tal senso, ma l’argomento non è stato sviscerato in maniera sufficientemente chiara, limitandosi a dichiarare più volte che si cercherà di evitare la cosiddetta “frammentazione”, ovvero la divergenza tra i rendimenti dei titoli di Stato dei vari paesi membri della Ue. Troppo poco per dei mercati finanziari che di questi tempi devono essere rassicurati praticamente su tutto.
Per altro l’appuntamento con la Banca Centrale Europea è iniziato subito male, quando sono state diramate le nuove stime di inflazione, che vedono per quest’anno una spesa di incremento dei prezzi di ben il 6,8%. Prima della guerra si era fermi al 3,3%. Per il 2023 la Bce si attende un’inflazione al 3,5%, mentre per il 2024 l’attesa per il 2,1%. Poi i tassi di interesse: il primo aumento di 0,25% avverrà a luglio, mentre il secondo dovrebbe essere pari ad un altro 0,25% che sarà decretato a settembre. Dunque in apparenza nulla di sorprendente, ma i mercati l’hanno presa molto male, perché hanno avuto nuovamente l’impressione che la Bce non abbia pienamente il controllo della situazione, come lascerebbe intender la sua tardiva revisione delle aspettative di inflazione. E gli operatori pensano che tanta inerzia dialettica possa essere già sintomo di incertezze operative in futuro, le quali potrebbero dipendere dal diffuso timore per la debolezza dell’economia europea, posta sempre di più sotto stress dalla guerra in Ucraina.
Venerdì è poi andato in scena il vero proprio crollo dei mercati finanziari, quando il dato sui prezzi alla produzione statunitensi, anziché scendere dall’8,3% all’8,2% (su base annua) è invece balzato all’8,6%. Su base mensile è cresciuta in maniera ancor più preoccupante, perché si è passati dal +0,3% di aprile ad un poco rassicurante +1% a maggio. Così ora si teme che la Fed, che terrà la sua prossima riunione di politica monetaria mercoledì, possa decidere di inasprire ulteriormente nella sua politica di aumento del costo del denaro.
Ma forse i mercati finanziari stanno già guardando più avanti, e cioè si stanno domandando se la politica monetaria, per quanto fortemente restrittiva, sia in grado da sola di fermare l’inflazione, la quale non dipende da eccessi nell’economia reale, ma da una serie di eventi catastrofici che stanno limitando la disponibilità di un numero sempre maggiore di materie prime, oltre ad ostacolare il trasporto dei beni che passano attraverso i porti cinesi. Tutto questo c’entra poco o nulla con il livello dei tassi di interesse. Il costo del denaro può rendere più gravoso il mantenimento di ingenti scorte di materiali, ma non può costringere tutti i grossisti a vendere. Questo concetto è stato spiegato chiaramente da Keynes negli anni ‘30, quando scriveva che lo speculatore non è tanto interessato al livello del saggio di sconto che paga sul denaro preso a prestito per i suoi affari, ma dal profitto che spera di ricavarne. E allora perché i mercati azionari sono crollati? Lo hanno fatto non perché sia più gravoso detenere azioni, anche a debito, ma perché si teme che l’aumento dei tassi di interesse possa rallentare tutta quella parte di acquisti di beni e servizi che vengono effettuati a credito. Ma anche in questo caso in realtà l’effetto dei tassi è piuttosto limitato, in quanto le aziende e i privati più forti, se ridurranno i loro acquisti, lo faranno più per compensare il maggior costo dell’energia, che non per paura di pagare di più l’eventuale scoperto di conto corrente. Dunque la sola manovra del costo del denaro fa sicuramente scendere i mercati, forse spingerà in recessione l’economia di qualche paese, ma rischia di non riuscire a fermare l’inflazione.
E allora probabilmente si andrà verso uno scenario dove sarà richiesto alla politica di attivarsi per fermare questa pericolosa spirale dei prezzi, in primis cercando di bloccare la guerra in Ucraina. Venerdì il presidente di Confindustria, carlo Bonomi, lo ha dichiarato esplicitamente: l’aumento dei tassi della Bce non è la soluzione per controllare l’inflazione, ma servono interventi economici. L’amministrazione Biden sta pensando di rimuovere una parte dei dazi contro la Cina, una misura che darebbe il suo contributo non da poco nella lotta all’inflazione. In Europa si parla di fissare un tetto massimo prezzo del gas, provvedimento che potrebbe funzionare solo in parte, perché la sua applicazione sarebbe piuttosto complicata. Non solo idee, dunque, ma anche problemi nel realizzarle. Però un punto è estremamente chiaro: delegare la lotta all’inflazione alle sole banche centrali rischia sempre di più di spedire le economie in recessione, uno scenario che in questo momento il mondo non si può permettere. Per questo motivo ci aspettiamo tra non molto le prime mosse in questo senso, quantomeno l’avvio di negoziati a livello internazionale per intervenire sulla situazione. I mercati finanziari, come spesso fanno, la scorsa settimana forse hanno esagerato, ma il monito che mandano è chiaro ed inequivocabile: gli strumenti finora attivati per combattere l’inflazione non sono adeguati.