LA CRISI FINANZIARIA DEL 2007-2009
La crisi finanziaria dei mutui subprime ha avuto inizio negli Stati Uniti nel 2006. I presupposti della crisi risalgono al 2003, quando cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio, ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito poiché non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie. I fattori che hanno stimolato la crescita dei mutui subprime sono riconducibili, tra l’altro, alle dinamiche del mercato immobiliare statunitense e allo sviluppo delle cartolarizzazioni.
La bolla immobiliare. A partire dal 2000 e fino alla metà del 2006, negli Stati Uniti i prezzi delle abitazioni sono cresciuti in maniera costante e significativa, generando una vera e propria bolla immobiliare. Tale dinamica era favorita dalla politica monetaria accomodante della Federal Reserve (FED), che mantenne i tassi di interesse su valori storicamente bassi fino al 2004, in risposta alla crisi della bolla internet e all’attacco dell’11 settembre 2001.
La politica monetaria. Tassi di interesse bassi equivalevano a un basso costo del denaro per i prenditori dei fondi, ossia per le famiglie che richiedevano mutui ipotecari, e finirono pertanto con lo stimolare la domanda di abitazioni alimentandone ulteriormente i relativi prezzi. La bolla immobiliare, inoltre, rendeva conveniente la concessione di mutui da parte delle istituzioni finanziarie che, in caso di insolvenza del mutuatario, potevano comunque recuperare il denaro prestato attraverso il pignoramento e la rivendita dell’abitazione.
La cartolarizzazione. Oltre alla bolla immobiliare e ai bassi tassi di interesse, la crescita dei mutui subprime è stata sostenuta anche dallo sviluppo delle operazioni di cartolarizzazione, ossia dalla possibilità per gli istituti creditizi di trasferire i mutui, dopo averli ‘trasformati’ in un titolo, a soggetti terzi (le cosiddette ‘società veicolo’) e di recuperare immediatamente buona parte del credito che altrimenti avrebbero riscosso solo al termine dei mutui stessi (10, 20 o 30 anni dopo). La cartolarizzazione consentiva alle banche, apparentemente, di liberarsi del rischio di insolvenza dei prenditori dei fondi e indeboliva così l’incentivo a valutare correttamente l’affidabilità dei clienti. Le società veicolo, dal canto loro, finanziavano l’acquisto dei mutui cartolarizzati mediante l’offerta agli investitori di titoli a breve termine.
Le società veicolo (Special purpose vehicle – SPV – e conduit) presentavano all’attivo gli impieghi a medio e lungo termine ceduti dalle banche e al passivo titoli a breve termine (le cosiddette Asset backed commercial paper – ABCP), garantiti dalle attività bancarie cedute e assistiti da linee di liquidità messe a disposizione dalle banche stesse. Una modalità alternativa di cartolarizzazione prevedeva l’emissione dei cosiddetti Collateralised Debt Obligations (CDO) sempre tramite apposite società veicolo (spesso indicate anch’esse con la sigla CDO) e operazioni di ricartolarizzazione, nelle quali le attività sottostanti erano in prevalenza titoli strutturati
In un contesto di bassi tassi di interesse, i titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli USA sia in Europa. Tale circostanza ha creato i presupposti per la trasmissione della crisi dall’economia statunitense alle economie europee.
L’espansione della leva finanziaria (leverage). Lo sviluppo delle cartolarizzazioni ha comportato il passaggio del modello di business delle banche dall’approccio originate and hold (la banca eroga il mutuo e attende un lasso di tempo prima di recuperare la somma prestata e i relativi interessi) all’approccio originate and distribute (la banca eroga il mutuo e lo trasferisce a terzi tramite cartolarizzazione, recuperando subito la somma prestata). Per effetto delle cartolarizzazioni, le banche rientravano in tempi rapidi nella disponibilità del denaro prestato, che potevano riutilizzare per erogare altri mutui a clienti la cui affidabilità veniva valutata in maniera sempre meno accurata. Grazie alla cartolarizzazione, le istituzioni finanziarie poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio (fenomeno del leverage o leva finanziaria). Ciò consentiva loro di realizzare profitti molto elevati, ma le esponeva anche al rischio di perdite ingenti.
Il ruolo delle agenzie di rating. Le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, ossia di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato. In tale contesto, a fronte dell’opacità dei prodotti e della difficoltà di apprezzarne il valore, il giudizio delle agenzie di rating ha assunto un’importanza crescente in quanto riferimento condiviso per la valutazione dei prodotti. Il rating, tuttavia, esprimeva i risultati di stime basate sui modelli di valutazione adottati dalle agenzie e risultava pertanto assoggettato ai limiti che le ipotesi alla base dei modelli stessi potevano presentare. Tali limiti divennero evidenti in seguito allo scoppio della crisi subprime, quando divenne chiaro che le agenzie avevano utilizzato modelli non sufficientemente sofisticati, ovvero basati su ipotesi e scenari sull’evoluzione del quadro congiunturale troppo ottimistici. In quella circostanza fu palese, inoltre, che le agenzie avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi.
La scoppio della bolla immobiliare. All’inizio del 2004, la FED cominciò a innalzare i tassi di interesse in risposta alla ripresa dell’economia statunitense. I mutui divennero sempre più costosi e aumentarono i casi di insolvenze delle famiglie incapaci di restituire rate sempre più onerose. La domanda di immobili si ridusse, con conseguente scoppio della bolla immobiliare e contrazione del valore delle ipoteche a garanzia dei mutui esistenti.
Il contagio nel settore bancario. Le istituzioni finanziarie più coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite. A partire da luglio 2007 e per tutto il 2008, inoltre, si susseguirono vari declassamenti del merito di credito (downgrading) di titoli cartolarizzati da parte delle agenzie di rating. Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili, costringendo le società veicolo a chiedere fondi alle banche che li avevano emessi e che avevano garantito linee di liquidità. Alcune banche, tuttavia, non furono in grado di reperire la liquidità necessaria per soddisfare tali richieste, poiché nessun istituto finanziario era disposto a fare loro credito. In un contesto di scarsa chiarezza circa la distribuzione dei titoli strutturati nel sistema finanziario, infatti, il mercato interbancario sperimentò un forte aumento dei tassi e una significativa contrazione della disponibilità delle banche a concedere credito ad altri istituti finanziari. Dalla crisi di fiducia di fiducia si sviluppò dunque una crisi di liquidità. Le banche subirono pesanti perdite non solo per l’esposizione verso le società-veicolo, ma anche per le esposizioni verso soggetti colpiti dalla crisi (ad esempio, i fondi che avevano investito nei titoli cartolarizzati), ovvero il possesso diretto di titoli strutturati per motivi di investimento. Tali circostanze condussero alcuni tra i maggiori istituti di credito statunitensi verso il fallimento, evitato grazie all’intervento del Tesoro di concerto con la FED. La banca di investimento Lehman Brothers, tuttavia, non ricevette aiuti statali o supporto da soggetti privati e avviò le procedure fallimentari il 15 settembre 2008. L’insolvenza della banca d’affari americana Lehman Brothers innescò una nuova fase di intensa instabilità. La decisione delle Autorità americane di lasciare fallire una grande istituzione finanziaria, con un’ampia e rilevante operatività al di fuori degli Usa, scosse profondamente la fiducia degli operatori alimentando un clima di fortissima tensione e incertezza sui mercati. Il default Lehman Brothers generò preoccupazioni diffuse sulla solidità di altre banche d’affari e timori per gli effetti dell’esposizione verso questi istituti di tutti gli altri partecipanti al mercato. Il brusco aumento del rischio di controparte percepito dagli operatori determinò una nuova drastica riduzione della liquidità sul mercato dei depositi interbancari e un aumento dei tassi a breve termine, nonostante le banche centrali, come si dirà di seguito, avessero già avviato massicce iniezioni di liquidità.
La crisi apparve sempre più nella sua natura sistemica, con turbolenze senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari, in particolare ai titoli delle società del settore finanziario, e progressivamente all’intero sistema finanziario evidenziando un elevato grado di interconnessione. Per effetto dell’esposizione diretta o indiretta delle banche di alcuni paesi europei al fenomeno dei mutui subprime, il contagio si estese anche all’Europa.
La crisi finanziaria si trasmette all’economia reale. In breve tempo, la crisi dei mutui subprime si trasferì all’economia reale statunitense ed europea, provocando una caduta di reddito e occupazione. A tale caduta concorsero la restrizione del credito bancario a famiglie e imprese, il crollo dei mercati azionari e dei prezzi delle abitazioni (cosiddetto effetto ricchezza) e il progressivo deterioramento delle aspettative di famiglie e imprese, con conseguenti ripercussioni su consumi e investimenti. Le interdipendenze commerciali tra paesi, infine, comportarono una pesante riduzione del commercio mondiale.
Le misure delle istituzioni statunitensi. L’aggravarsi della crisi spinse il governo americano a intervenire con un piano di salvataggio del sistema finanziario e dei grandi istituti di credito statunitensi, articolato sia in operazioni di nazionalizzazione sia in programmi di acquisto di titoli privati. Durante il biennio 2007-2009, il programma di acquisto di titoli cartolarizzati Tarp (Troubled asset relief program), la cui ampiezza era inizialmente fissata a 700 miliardi di dollari, raggiunse complessivamente 7.700 miliardi di dollari e comportò immissione di liquidità sul mercato bancario a tassi prossimi allo zero dalla FED a sostegno di banche e compagnie di assicurazione.
Le misure delle istituzioni europee. In Europa, la crisi toccò per prima Northern Rock, quinto istituto di credito britannico specializzato nei mutui immobiliari, oggetto a metà settembre del 2007 di una corsa agli sportelli. La Banca centrale britannica procedette alla nazionalizzazione dell’istituto, impegnando circa 110 miliardi di sterline. A questo intervento ne seguirono altri, anche nella forma di ricapitalizzazioni e acquisti di obbligazioni a sostegno di varie banche in crisi.
Consistenti piani di salvataggio per istituti di credito in difficoltà vennero predisposti da Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Svezia. Nel complesso gli aiuti erogati dai governi alle banche dei rispettivi sistemi nazionali raggiungono i 3.166 miliardi di euro in Europa, sotto forma di garanzie (2.443 miliardi), ricapitalizzazioni (472 miliardi) e linee di credito e prestiti (251 miliardi; dati MBRES a dicembre 2013).
In particolare in Germania gli aiuti pubblici alle banche sono stati di ammontare considerevole, sia sotto forma di garanzie sulle passività bancarie sia sotto forma di sottoscrizione di azioni o titoli subordinati (oltre 380 miliardi di euro di garanzie e circa 56 di capitale). In Spagna il più consistente intervento di ricapitalizzazione ha coinvolto il fondo europeo di salvataggio (EFSF), che nel 2012 ha erogato un prestito allo Stato di oltre 30 miliardi di euro; tale somma costituisce la prima tranche dei 100 miliardi di aiuti concessi dall’Unione Europea al Paese per la ricapitalizzazione e la ristrutturazione del sistema bancario domestico.
In Italia, invece, il sistema bancario non è stato assistito da significativi interventi di sostegno pubblico sino alla fine del 2011. Lo Stato si è limitato, infatti, a sottoscrivere obbligazioni subordinate, per un ammontare complessivo di poco più di 4 miliardi di euro, emesse da quattro banche, a fronte dell’impegno degli istituti emittenti a non ridurre il credito erogato all’economia reale. Le maggiori difficoltà per le banche italiane sono state determinate, invece, dalla crisi del debito sovrano che, acuitasi dalla metà del 2011, ha provocato un deterioramento degli attivi bancari a causa dei consistenti investimenti diretti degli istituti di credito in titoli pubblici domestici. L’intervento dello Stato, in tal caso, ha preso la forma di garanzia pubblica sulle obbligazioni emesse dalle banche (per un ammontare di circa 120 miliardi) con l’obiettivo di alleviarne le difficoltà di provvista attraverso la riduzione del costo della raccolta obbligazionaria e l’accesso alle operazioni di rifinanziamento presso la BCE garantite dagli stessi titoli obbligazionari (si veda la Relazione Annuale della Consob per l’anno 2012).
I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano.
Gli interventi dei securities regulators e la riforma degli assetti di vigilanza
Oltre agli interventi pubblici di salvataggio e nazionalizzazione di alcuni istituti in maggiore difficoltà, in molte giurisdizioni, i securities regulators (la Consob tra i primi) hanno attivato misure di intervento urgenti, come il divieto di vendite allo scoperto di titoli azionari. Alla luce di tali vicende successivamente è stato adottato un Regolamento europeo in materia, in vigore dal novembre 2012.
La crisi ha messo in discussione, inoltre, la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario, da quella sui requisiti di capitale a quella sui principi contabili, per l’attitudine a creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante. È emersa, inoltre, la necessità di rivedere l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina in alcuni settori del mercato finanziario (tra i quali quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter), e di dettare standard più vincolanti in materia di governance delle imprese, soprattutto per ciò che riguarda le politiche di remunerazione dei manager e di gestione dei rischi.
Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza, infine, la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa. Da queste riflessioni, a seguito di ampio e articolato dibattito, in Europa è stata disegnata una nuova architettura istituzionale volta a promuovere regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme.