Economia e Logistica

Banche: per Sileoni (Fabi) è ora di cambiare registro. I numeri lo impongono.

Basta con i tagli a personale e sportelli e più forza agli investimenti

Lando Maria Sileoni (Fabi)

La fotografia che la Fabi (il sindacato dei bancari) fa del sistema del credito italiano ci consegna un’immagine molto distante da quella che molti immagineranno. Tra l’altro si basa su dati non recentissimi, il cui aggiornamento appensantirebbe ancor più la descrizione riportata da Lando Maria Sileoni e che si riferiscono agli anni dei precedenti rinnovi contrattuali e al 2022. Un elenco di numeri e scelte che impongono attenzioni

Sileoni sottollinea come i ricavi  siano costantemente aumentati. 74 miliardi nel 2012, 78 mld nel 2015, 82 mld nel 2019, 88 mld nel 2022. Anche la crescita degli utili nel corso dello stesso perido è stata straordinaria, in 10 anni +1.000%.

Discorso diverso Invece per la crescita dei costi del personale in 10 anni solo del +17%.  In 10 anni, i dipendenti bancari sono diminuiti (-14,7%) e anche le filiali (-36,2%), ma i costi operativi sono cresciuti quasi del 20%.

«Tagliare i costi, compresi quelli del personale, non è più una necessità per il settore. L’aumento del costo medio del lavoro (30 mila euro in 10 anni) si giustifica con stipendi sempre più alti per alcune categorie di dipendenti e non per tutte» ha detto Sileoni. Nel 2012 le banche avevano 309mila dipendenti e 32.000 filiali in tutta Italia. Dopo 10 anni, i dipendenti delle banche sono scesi a 264mila (meno 15%) e le filiali bancarie sotto quota 21mila (meno 36%). BancoPosta, nello stesso periodo, ha lasciato di fatto intatta la sua presenza territoriale: le filiali erano 13.000 e oggi sono 12.500 (meno 5%). Lo spazio lasciato a BancoPosta è voluto, non casuale: le banche preferiscono concentrarsi su attività che garantiscono maggiori ricavi (la vendita di prodotti finanziari e assicurativi) lasciando a Poste attività più costose e meno redditizi. Allo stesso tempo BancoPosta diventa un canale distributivo alternativo per alcuni grandi gruppi bancari che vendono i loro prodotti di credito anche ai clienti di Poste. A partire dal 2014, la vigilanza sulle banche italiane, con l’eccezione delle più piccole, è passata dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea che ha drasticamente modificato l’approccio di supervisione: zero dialogo, più regole rigide. Obiettivo: meno banche, pochi grandi gruppi e più solidi, con patrimoni più robusti capaci di reggere anche a scossoni finanziari di dimensione globale perché il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 aveva lasciato il segno. In particolare, la Bce ha preteso una rilevante riduzione delle sofferenze: i crediti deteriorati delle banche erano passati, dal 2008 al 2014, da 131 miliardi a 350 mld di euro (200 miliardi erano sofferenze). Oggi le sofferenze nette sono pari a circa 15 miliardi, mentre il totale dei crediti deteriorati è di 55 mld. La qualità del credito, insomma, è diventata una ossessione e la Bce ha costretto, di fatto, le banche, per alleggerire i loro bilanci, a cedere decine e decine di miliardi di prestiti non rimborsati a società di recupero crediti (spostando il problema dal settore bancario ai territori). Le fusioni e le aggregazioni, in alcuni casi necessarie per evitare fallimenti, hanno portato a una rilevante semplificazione o razionalizzazione del settore, in linea con le indicazioni nette e chiare della Banca centrale europea. I principali gruppi del settore Abi erano 31 nel 2012, 27 nel 2015, 22 nel 2019 e sono 18 oggi. Questa forte concentrazione ha portato le banche ad avere sempre più potere, che consente ai vertici del settore di condizionare significativamente la politica e le istituzioni. 

redazione 20 luglio 2023

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