Caro Porro, il governo ascolti le imprese: quanti errori sui cervelli in fuga

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Caro Porro,

dopo aver letto la proposta di modifica alla norma e l’intervento del vice ministro Leo al Sole24Ore, ho capito la ratio delle intenzioni del governo e cioè ridurre ed eliminare gli abusi sui “cervelli di rientro”. E sono d’accordo con questo.

Ciò che invece voglio trasmettere con questa lettera è un altro punto di vista, con la richiesta all’esecutivo di realizzare il suo programma seppur rispettando, preservando e tutelando i diritti di chi – persone e imprese – non vuole approfittare della norma in maniera fraudolenta, ma semplicemente desidera rientrare in Italia per stare vicino ai propri cari, senza dover rinunciare al frutto dei sacrifici fatti durante gli anni all’estero.

Ci sono scelte di vita che sono state fatte pensando in una stabilità del quadro normativo o per lo meno non in un suo inasprimento.

Le cercherò di spiegare i motivi riguardo quattro principali aspetti della modifica:

  • rientro nella stessa azienda;
  • riduzione del vantaggio per le famiglie;
  • obbligo di residenza per 5 anni, con rischio di dover restituire l’agevolazione;
  • riduzione a 5 anni, rispetto ai precedenti 10;

1) Rientro nella stessa azienda
Nel mio caso specifico, ma nella mia situazione siamo in molti, il pregiudizio è molto grande:

  • nel 2018 sono stato mandato dalla mia azienda all’estero per aprire uno stabilimento;
  • ho fatto un buon lavoro, tanto che il gruppo ha avuto una crescita del 300% non solo all’estero ma anche in Italia. Lavoriamo in un settore strategico dove essere presenti in tutta Europa è ormai un fattore chiave per restare competitivi come gruppo anche in Italia, poiché le piattaforme ormai sono trasversali e devi poter garantire copertura europea;
  • nel maggio 2023 ho ricevuto offerta da un competitor per rientrare in Italia, ma lo ho rifiutato perché la mia azienda mi aveva già detto che mi voleva riportare in Italia per prendere un ruolo di gruppo e portare il know how che ho maturato fuori alla casa madre;
  • mi ha chiesto di attendere ancora due anni e poi ritornare;
  • immaginando una stabilità della normativa italiana, ho accettato la proposta, perché mi piace l’azienda in cui lavoro, rinunciando alla offerta del concorrente più interessante economicamente.

Ora, con la nuova norma che vieta il rientro all’interno dello stesso gruppo, la mia azienda si trova in una posizione di svantaggio rispetto al nostro concorrente. Paradossalmente ha investito su di me tutti questi anni e a beneficiarne potrebbe essere il concorrente diretto che, ad un costo inferiore, riceverebbe non solo il manager, ma anche il know-how di settore che ho maturato. Non nego che si è immediatamente fatto sotto nuovamente. Ho ancora declinato perché sono uomo di parola, ma ne soffrirò un danno economico e forse familiare.

La nuova norma svantaggia le aziende italiane che investono in internazionalizzazione e vogliono far crescere internamente i propri manager. Soprattutto le medio-piccole che con veri vantaggi fiscali verrebbero aiutate nella loro competitività.

C’è anche un altro paradosso: se l’azienda mi mandasse invece in una nostra filiale in altro Paese europeo per non perdermi, avrebbe più facilitazione economica e io più vantaggi fiscali, rispetto a quelli che avremmo entrambi riportandomi in Italia, proprio perché il Belpaese sta annullando le agevolazioni che gli altri Stati mantengono. Questa modifica disincentiva il rientro, anziché favorirlo.

2) Equiparare single e figli
Un altro errore è equiparare single a famiglie, poiché il costo economico ed emotivo di spostare una famiglia con figli è di molto superiore rispetto a un trasferimento da soli. Qualsiasi padre di famiglia, prima di sradicare nuovamente i figli soppesa i rischi e i benefici. E la vecchia normativa aiutava la scelta. Il governo con questa scelta disincentiva non solo il rientro ma anche la natalità e il rientro di bambini italiani in Italia.

3) Obbligo della residenza per 5 anni
In un contesto globale come quello attuale, obbligare alla residenza per 5 anni è fuori dal mondo. Nessune expat tornerebbe in Italia con il rischio di dover restituire tutti i soldi, se dopo 3 anni fosse costretto a dover ripartire. Il mondo aziendale in cui i cosiddetti “cervelli”, cioè persone ad alto potenziale, vivono non è come la pubblica amministrazione dove una volta entrati si resta per tutta la vita. Può succedere che cambino le strategie aziendali, che si perda il lavoro, che sia la moglie invece a doversi trasferire all’estero temporaneamente, eccetera.

Considero 2-3 anni di obbligo un tempo più che ragionevole: il ciclo strategico aziendale, nel contesto economico incerto attuale, non dura infatti di più.

4) Ripristino dei 10 anni di vantaggi
La durata del vantaggio è stata finora il miglior argine ad un eventuale nuovo abbandono del Paese. Molto più dell’obbligo che viene ora introdotto, che appare più un approccio di sinistra che liberale e di destra, dove si dovrebbe prediligere il costo opportunità invece della coercizione. Sapere di avere davanti un lungo periodo di vantaggio consente alle famiglie di pianificare la propria vita con più tranquillità, disincentivando eventuali tentazioni di ripartire verso offerte più interessanti dall’estero. Una volta passati 10 anni, difficilmente si riparte perché la famiglia si è nuovamente radicata in Italia.

I 10 anni di vantaggi fiscali incentiverebbero la natalità, l’acquisto di una casa, l’apertura di attività imprenditoriali. Con solo cinque anni e il rischio di dover restituire la somma non versata, nessuno farà una scelta definitiva prima della scadenza. I cinque anni proprio perché sono lunghi per l’obbligo, sono corti per il vantaggio. Come per l’acquisto di un macchinario, anche per una scelta di vita l’orizzonte temporale dell’ammortamento dell’investimento deve essere lungo.

Lettera firmata


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