Renault annulla la quotazione in Borsa della controllata Ampere, il suo polo dell’auto elettrica. Si tratta dell’ultimo cortocircuito che fulmina i talebani del green, che volevano imporre in sede europea il dogma delle vetture con la spina pur di cancellare del tutto i derivati del petrolio dai nostri serbatoi.
Il gruppo francese, che aveva già rimandato una volta il debutto di Ampere sul listino di Parigi, specifica nel comunicato che le attuali “condizioni di mercato” non consentono di coronare il progetto e di perseguire al meglio gli interessi dei suoi azionisti.
In poche parole, gli investitori istituzionali non sembrano pronti a valorizzare Ampere quanto vorrebbe la casa madre. Così il progetto di quotare il polo nato per “democratizzare” l’utilizzo delle auto elettriche su scala europea più rapidamente delle concorrenti, torna rapidamente nel cassetto. Malgrado fosse stato presentato in pompa magna anche lo scorso 15 novembre all’ultimo incontro con il mercato.
Renault conferma comunque sia il proprio impegno sia per abbattere le emissioni sia per far sviluppare il giro d’affari di Ampere e portarla, come previsto, al pareggio di bilancio nel 2025.
Quello che qui importa è però la vasta crepa di realismo ormai apertasi nell’illusione che continua ad accecare i sacerdoti del tutto elettrico e delle emissioni zero. Secondo alcuni analisti, come quelli di Ubs, ad oggi Ampere varrebbe infatti 4 o 5 miliardi. La metà, quindi, dei 8-10 miliardi che aveva sperato incassare Renault.
Il cui amministratore delegato, l’italiano Luca De Meo, siede anche al vertice di Acea, l’associazione che riunisce le case produttrici del Vecchio continente. L’inversione di marcia del gruppo transalpino si somma peraltro ai segnali sinistri mandati da altri costruttori come:
- La convinzione espressa dall’imprenditore nipponico Akio Toyoda, che siede alla presidenza di Toyota fondata da suo nonno, sul fatto che le vetture a batteria non diventeranno mai egemoni.
- L’allarme acceso pochi giorni fa dallo stesso Elon Musk, il fondatore di Tesla, sullo strapotere nel settore esercitato dalla Cina, che rischia di spazzare via la concorrenza dei marchi occidentali, facendo leva sul predominio delle terre rare e costi del lavoro molto più bassi.
- Nè può aiutare la crisi del Canale di Suez che sta mettendo a rischio la catena delle forniture, compresa la disponibilità delle parti di ricambio delle automobili.
- Non sembra edificante per i seguaci di Greta Thunberg che la Norvegia sia diventata la regina dell’auto elettrica grazie a un bilancio statale che pompa miliardi dal petrolio.
Tesla sta progressivamente tagliando i listini anche per rispondere all’offensiva del Dragone ma la gran parte dei consumatori non sembra pronta. Forse anche perché preoccupata dai problemi di affidabilità che ancora martoriano le batterie come hanno dimostrato recenti casi di vetture bloccate nelle stazioni di ricarica dal gelido inverno che sferza il Midwest degli Stati Uniti.
Per approfondire leggi anche: la corsa di Stati Uniti, Cina ed Europa per riportare l’uomo sulla Luna e accaparrarsi le terre rare. Qui, invece, perché è impossibile la transizione green senza il nucleare.
Il mondo sostenibile, quello che sventola la bandiera ESG con cieca ostinazione, diventa insostenibile. E quindi da rottamare. Dovrebbero rifletterci sopra anche i burocrati di Bruxelles, dove la miopia che impera sul diktat del green è pari solamente a quello del rigore e dei tassi della Bce che ci stanno spedendo in recessione.