“Non Investire mai in nulla che tu NON possa disegnare con una matita“: a chi appartiene questa visione?
Ecco il suo profilo: 76 anni oggi, ‘44 la sua classe di nascita e 21 i punti dell’elenco in cui riassume i suoi principi d’investimento. Il 29 %, invece, è il rendimento medio annuo del fondo Fidelity Magellan Investimenti Fund da lui gestito per ventitré anni, dal 1977 al 1990.
Già capito di chi si parli? Lui è uno degli investitori di maggior successo di tutti i tempi: Peter Lynch. Ciò che di lui mi appassiona da sempre, e al tempo stesso lascia sorpesa, è racchiuso in questa massima:
“Invest in what you know”
Investi in ciò che conosci. Un concetto semplice. Semplicissimo. E quindi, di assoluto successo di pubblico. E non solo.
Peter Lynch rende celebre il suo parlare di finanza proprio perché lo semplifica con esempi immediati, facili da afferrare. In questo modo aggiunge una formidabile familiarità a uno degli universi più complessi da spiegare. Accorciando così le distanze tra il mondo degli investimenti e quello degli investitori.
Non è un caso che ogni volta, prima di cominciare i miei incontri di consulenza finanziaria, con una matita tra le dita, io me ne ricordi domandando a me stessa (come se fossi io il cliente che aspetto di ricevere):
“investirei i miei soldi in qualcosa che non comprendo facilmente oppure che faccio fatica a inquadrare?”
Mi rispondo che probabilmente avrei delle difficoltà, se la decisione dipendesse solo ed esclusivamente dalla mia capacità di comprendere al 100% tutto ciò di cui mi parla il consulente, in quel preciso istante.
E se vestissi, per un attimo, i panni del cliente che mi siede di fronte quali sarebbero i miei pensieri all’avvio di quell’incontro?
Da che tipo di consulente mi aspetterei di essere ricevuta? Quali valutazioni peserebbero più di altre nell’accordargli la mia preferenza per sceglierlo come persona di fiducia?
Mi aspetterei che fosse un professionista tecnicamente preparato. Evidentemente aggiornato. E questo sarebbe un presupposto necessario, certamente.
Sarebbe anche una condizione per me sufficiente? Direi di no.
Perché spererei, banalmente, che sia dotato di altrettanta capacità empatica. In fondo gli sto per affidare non solo le mie risorse finanziarie, ma anche tutto ciò che sta prima del mio patrimonio. E che verrà dopo.
I miei “progetti”, in una sola parola.
Insomma vorrei che il mio consulente finanziario mi parlasse di finanza in modo semplice, indubbiamente Sì, ma lo vorrei esperto anche sul piano relazionale: vorrei terminare quell’incontro avendo le idee più chiare su come risolvere le mie esigenze di vita e, non di meno, avendo ottenuto una sensazione di affidabilità e di onestà intellettuale.
E allora: è indubbio che la semplicità sia un importante veicolo di trasmissione di tutti questi tipi di benefit. Al contrario i tecnicismi allontanano dalla presa di beneficio, in tal senso, e li considero più vizi che virtù.
Ma non è tutto, in verità.
Ora torno a fare il consulente e mi accorgo dell’altra evidenza: le relazioni di consulenza procedono più spesso per “delega” di fiducia che per una diretta possibilità di accesso al linguaggio finanziario che, al di là degli sforzi di semplificazione, talvolta resta specialistico al punto da non rendersi sempre trasferibile, tout court.
Tant’è che in questo tipo di legami il baricentro si trova altrove. La stragrande maggioranza dei rapporti con i nostri clienti è rappresentata da relazioni fiduciarie di cui il consulente diventa, appunto, un’estensione.
Che cosa integra allora il collante “necessario e sufficiente” affinché una relazione di consulenza sia di successo? Che cos’altro ripaga pienamente della fiducia accordata? Lo esprimo condividendo un ricordo di circa venti anni fa.
Ripenso a quell’aula in cui, giovanissima, sono presente ogni lunedì mattina, insieme a un’altra trentina di colleghi: è un gruppo di lavoro che ha l’abitudine di riunirsi settimanalmente. Facciamo il punto su più argomenti: ragioniamo di nuove soluzioni d’investimento che una banca superVeloce e modernissima ci mette puntualmente a disposizione. Discutiamo di programmazione lavorativa e di attività formative. Condividiamo esperienze professionali.
Il Team si chiude, immancabilmente, con un girotavola.
Il manager che presiede l’incontro chiede a ognuno di noi di leggere a turno una diapositiva che un proiettore sputa fuori come una mitragliatrice: poche battute in un paio di righe. Lui ama definirle “pillole”. Tra le tante arriva questa:
“Non si può essere Etici al 90 %”
[O si è, o non si è]
Mentre guardo quella diapositiva, penso tra me e me: ..delizia per gli animi più coerenti..
Sarà, forse, perché resto con lo sguardo fisso a quella slide, o sarà perché mi viene da sorridere pensando che quel tipo di “qualità palindroma” sia il segreto per delle relazioni di successo, insomma quello diventa il mio turno: mi chiede di leggerla.
Lui è il nostro GM, e organizza per noi decine di team. Ognuno di essi ha temi differenti, e pillole di fine lavori altrettanto diverse perché Pasquale ha cura di sceglierne sempre di nuove e con note variegate.
Ma una cosa resta sempre uguale, di riunione in riunione: ogni qual volta ricompaia quella massima, a me chiederà puntualmente di rileggerla. E poiché succede tutte le volte, il fortuito resta escluso. All’epoca non mi accorgo del perché della curiosa ricorrenza. A ripensarci ora, invece, me ne compiaccio…
E se rifletto sulle abilità divulgative di Peter Lynch, mi convinco che la semplicità (quando non innata) sia una di quelle virtù suscettibili di allenamento e comunque acquisibile nel tempo. Se ripenso, invece, a quella massima, non occorrono percentuali.