Mi chiamo Cloud, e ho intenzione di restare
La rivoluzione sembra appena cominciata. Di dietrofront, almeno per ora, non se ne parla.
Insomma, “squadra che vince non si cambia” si direbbe sul campo da gioco.
Non è solo il protrarsi della pandemia a determinare la tendenza a preferire la nuova normalità: sembra, piuttosto, che sia in corso un vero e proprio cambio di mentalità nei confronti della digitalizzazione e che sia piuttosto diffuso.
E’ quanto emerge dai risultati dell’indagine “Digital sentiment insight” condotta da McKinsey sul perimetro italiano: la ricerca avverte che il 69 % di chi ha cominciato a usare il digitale, a causa e in conseguenza delle restrizioni imposte da lockdown e quarantene, continuerà a farlo anche successivamente.
Ciò che sorprende, nella lettura dei dati, non è l’ovvio incremento nell’uso della tecnologia che si registra nel periodo, quanto piuttosto il cambio di approccio in corso anche da parte di nuovi utenti: gli intervistati confermano, infatti, di voler continuare a usare i canali digitali, anche una volta finita l’emergenza sanitaria. D’altronde nessuno sembra più sorprendersi all’idea che svolgere il proprio lavoro avrà sempre meno a che fare con il luogo fisico.
La stessa indagine rivela che la conversione al digitale non avviene tout court, ma a patto di rafforzare, quando addirittura di conquistare, la fiducia dei consumatori.
L’architettura tecnologica continua a edificare piattaforme cloud e habitat virtuali che, entrando di prepotenza nel magma delle nostre relazioni quotidiane, scolpiscono nuovi profili professionali, creano identità di ruolo inedite e ridisegnano modus operandi nuovi, talvolta, perfino innovativi.
Il cambio di atteggiamento in progress si rivela addirittura salvifico per tutte quelle attività e professioni che hanno la capacità di flettersi e convertirsi in tempo utile, sia in funzione della mera sopravvivenza, sia a beneficio del consolidamento del proprio business sul mercato. Magari per entrambi gli scopi.
L’accelerata dell’IT, impensabile fino a marzo scorso, è imponente.
L’altra faccia della Luna. L’overdose d’intrattenimento giornaliero che staziona sui social media testimonia, di contraltare, quanto sia forte in questo momento il bisogno di compensare l’azzeramento delle interazioni de visu cui si è dovuto, proprio malgrado, abdicare. E quanto profonda, dunque per nulla banale, sia la solitudine da isolamento forzato in casa.
Sta di fatto che l’impennata nell’adozione della tecnologia è tale da ridisegnare tempi e ritmi delle nostre intere giornate, non solo delle ore di lavoro da remoto. Per le quali, peraltro, sembra non esistere più un limite di orario, verso l’alto: gli impegni si dilatano in proporzione esponenziale alla velocità di accesso e fruizione dell’ambiente di lavoro virtuale che, azzerando le pause, finisce con il moltiplicare a dismisura le attività e la “presenza” sul web.
L’Ozio Creativo. “Vi siete mai chiesti cos’è il caffè? Il caffè è una scusa. Una scusa per dire a un amico che gli vuoi bene”. Lo ricorda Luciano De Crescenzo.
Chi non si rammarica, oggi, di non poter condividere quel benefico intermezzo sociale nel pieno delle mattinate di lavoro così prezioso per l’interazione tra umani? Se questa considerazione fosse oggetto d’indagine, la percentuale di chi rimpiange i momenti di convivialità dell’era pre-covid sarebbe più che intuitiva.
D’altronde che lo smart working sia la dimensione alternativa, per eccellenza, in un contesto di emergenza come quello che viviamo, chi può discuterlo? E che aggiunga indubbi vantaggi, di cui magari si potrà decidere di non fare più a meno, chi può negarlo?
Ma se chiedessi, oggi, ai colleghi e alle colleghe consulenti quanto dispiaccia non poter più stringere la mano al proprio cliente, o rinunciare ad averlo di fronte, ad altezza occhi, quale sarebbe il dato del rimpianto?
E’ facile indovinarlo.
Privilegiare a lungo (o per sempre) una, e un’unica, modalità di rapporto, quello a distanza tramite screen comporta inevitabilmente la rinuncia all’altro meraviglioso linguaggio di cui disponiamo, indispensabile alla “socievolezza” degli scambi e al benessere reciproco e che, non a caso, ha poco o nulla a che fare con l’uso del verbo in senso stretto.
Il più bel dialogo di cui l’uomo disponga è quello che passa per la comunicazione “che non dice”, quella non verbale appunto, quella che ha bisogno di stringere mani e di incontrare sguardi, di sottoscrivere Contratti Emotivi con chi abbiamo davanti.
Alla lunga e senza una correzione di rotta in direzione di un modello, almeno ibrido, che riammetta (speriamo presto) la possibilità anche della condivisione fisica, si rischia l’estensione della digitalizzazione anche al nostro modus vivendi.
Il passo è breve. E le conseguenze in termini di disagi psicologici appaiono chiare fin da ora.
Tornando alla ricerca di Mckensey fa riflettere, infatti, l’evidenza di un aspetto tutt’altro che secondario: l’importanza, proprio, dello scambio con l’uomo.
Esiste infatti una quota degli intervistati meno entusiasta e che si è dimostrata scoraggiata nell’adottare il canale digitale: ammonta al 37 % (in media). La principale causa all’origine della diffidenza? La mancanza, appunto, dell’interazione umana. Tant’è che una parte consistente ha preferito rivolgersi a un call center: è successo (in media) nel 40% dei casi.
C’è poi il Nodo della Fiducia: un italiano su quattro rinuncia del tutto all’uso del mezzo digitale, seppur a fronte di un bisogno reale, perché bloccato dal timore di fornire i propri dati o di rimanere vittima di frodi informatiche.
Il monito arriva forte e chiaro.
Social (non solo Smart) Work. E’ indispensabile, e lo è soprattutto per chi come me si occupa di consulenza finanziaria, costruire “ponti emotivi” che rafforzino il patto di fiducia con i nostri interlocutori, garantendo continuità di rapporto, un ascolto attivo e soprattutto mantenendo forte la passione non per il mezzo ma per il fine: il fattore Uomo e il suo progetto di vita.
Francesca Lauro