Economia

Letta e la patrimoniale: il feticcio della sinistra alla prova della riforma del fisco di Draghi

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Tasse e alleanze internazionali. Tutto il resto è contorno”. Una reminiscenza sbuca da un tempo perduto. Il professor Carlo Bottari durante una lezione di diritto costituzionale in un’aula universitaria a Bologna all’inizio degli anni novanta sintetizzò con questo aforisma gli unici due ambiti in cui davvero si può esplicare la politica di un governo: politica di bilancio, dunque fiscale, e politica estera. Solo su queste due cartine di tornasole si devono testare le vere differenze di una proposta elettorale o di una politica governativa.

Partendo da questo ricordo è più facile inquadrare i motivi della nascita del governo Draghi e la sua eventuale conclusione in concomitanza con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica fra otto mesi. Sullo strisciante tentativo di collocare l’Italia per la prima volta dal 1946 fuori da una influenza atlantica e dentro quella cinese è probabilmente caduto il secondo governo Conte, dando spazio a nuovo presidente del consiglio garante dell’atlantismo e del sistema economico occidentale.

Sulla necessità del Partito Democratico di tornare ad essere una forza di sinistra che si batte per la giustizia sociale utilizzando la redistribuzione della ricchezza potrebbe terminare la precaria unità nazionale firmata dai partiti che reggono il governo Draghi, incapaci probabilmente di trovare una sintesi sulla riforma che appare essere la più ostica delle quattro inserite nel PNRR: quella fiscale. Proprio mentre scorgiamo le prime luci fuori dal tunnel della pandemia Enrico Letta, nel tentativo di rianimare la sua segreteria differenziandosi quotidianamente da Salvini, avversario politico e alleato forzato di governo, riprende il tema dei temi: le tasse.

Letta sa che sulle tasse si fonda la politica moderna. La democrazia parlamentare occidentale nasce con la rivoluzione inglese del 1628 che al primo punto del Petition of Right impone al re di non imporre tasse senza l’approvazione del parlamento. La rivoluzione americana scoppia sull’imposizione di dazi doganali: l’approvazione dello Stamp Act del 1765 da parte della Corona inglese imponendo esose tasse interne alle colonie dà il via al processo politico che porterà alla nascita degli attuali Stati Uniti d’America. La rivoluzione francese scoppia perché il Terzo Stato è stanco di essere l’unico a versare le tasse al re, mentre clero e nobili sono esentati. Sono le tasse dunque il motore della storia moderna. Chi ha il diritto imporle, modularle e pretenderle con la forza detiene il vero potere politico.

I partiti nella storia repubblicana hanno costruito battaglie politiche e campagne di comunicazione, spesso elettorali, sul tema delle tasse, con l’obiettivo di coccolare i propri elettorati, promettendo riduzioni, quasi sempre a farlo è stato il centrodestra senza mai riuscirci in modo concreto, o invocando la redistribuzione della ricchezza con nuove tasse, impegno spesso dichiarato esplicitamente dalla sinistra. Soprattutto nella cosiddetta terza repubblica il tema delle tasse è stato centrale nel dibattito pubblico. Berlusconi ne ha fatto un cavallo di battaglia fin dalla sua discesa in campo del 1994. Nel 1999 promise la cancellazione dell’imposta di successione. Nel 2000 coniò uno degli slogan più ricordati e oggetto di satira di sempre: “Meno tasse per tutti”. Nel 2018 Salvini con la proposta della “Flat-Tax” trovò i voti necessari per consentire alla Lega di costituire una maggioranza parlamentare con il M5S.

A sinistra in Italia le tasse restano, invece, l’architrave di una visione dell’economia basata sulla conservazione del Welfare State di inizio novecento. Lo strumento attraverso il quale negli ultimi cento anni si è tentato di riequilibrare la differenza fra i privilegiati e i proletari, gli svantaggiati, gli emarginati, gli esclusi. Lo strumento principe per attuare la giustizia sociale. Eppure il secondo governo Prodi cadde proprio dalla cesura a sinistra con Rifondazione Comunista e gli altri partiti di quella variegata maggioranza sul tema della tassazione.

Fece scandalo la posizione del partito di Fausto Bertinotti quando esaltò la linea fiscale considerata dura contro i più abbienti attuata nella della Legge Finanziaria 2007 con il famoso manifesto solcato dallo slogan “Anche i ricchi piangano” sopra l’immagine di uno yacht di lusso. Il ministro dell’economia di quel governo, Tommaso Padoa-Schioppa, definì le tasse, con scandalo della maggioranza degli italiani, “una cosa bellissima”. Alle elezioni successive il centrodestra vinse in modo clamoroso. Un altro ministro dei governi di centro-sinistra, Vincenzo Visco, si meritò l’appellativo di Dracula e oggi torna a commentare entusiasta la proposta di Letta.

Altra parola sfruttata dai partiti come campo di battaglia politica è patrimoniale: la tassa sul patrimonio, che in Italia si traduce istintivamente come tassa sulla casa. Anche se spesso i patrimoni sui quali la sinistra pensa di applicarla sono davvero ingenti dal punto di vista del valore economico e dunque riguarderebbero un esiguo numero di contribuenti, tutti gli italiani si sentono minacciati da tali proposte, credendo di poter rientrare fra i probabili neo-tartassati. Così nonostante dal 1996 diversi uomini della sinistra si sono fatti carico di gestire il ministero di via XX settembre la politica economia da loro proposta non ha saputo mai affrontare il tema della riforma fiscale in modo organico.

Lasciando il gettito alto, disomogeneo e frammentato. Inventando tanti bonus, che spesso hanno agevolato più le categorie produttive che i soggetti svantaggiati del Paese. Utilizzando spesso la scappatoia dello spostamento del carico fiscale dal centro agli enti locali per alleggerirsi la coscienza, grazie alla disgraziata riforma del Titolo V della Costituzione. Senza mettere mai mano alle incrostazioni di un bilancio statale che nasconde antichi privilegi, sussidi a imprese improduttive, retaggi di passate stagioni dove lo stanziamento era dettato da logiche politiche, più che economiche.

Né tantomeno la sinistra di governo italiana ha avuto il coraggio della socialdemocrazia tedesca che prima dell’era Merkel con le politiche inedite del cancelliere Schröder seppe imporre quelle riforme che consentirono alla Germania di assorbire il peso economico dell’unità con l’ex DDR e divenire di nuovo in pochi anni la nazione leader in Europa. Riforme del sistema bancario, adeguamento al modello di globalizzazione finanziaria, ma soprattutto superamento della logica dello “Stato che protegge”, puntando invece allo stimolo per creare nuova di ricchezza, spronando i cittadini a lavorare di più e più a lungo (il tema della produttività che in Italia resta un tabù), in cambio di un abbassamento delle tasse e del peso della macchina burocratica furono gli elementi che senza paura la sinistra tedesca seppe imporre al paese.

Enrico Letta proponendo una patrimoniale per costituire un tesoretto da affidare ai giovani piazza una bandierina ideologica sul tavolo mediatico in vista della battaglia parlamentare che si scatenerà sulla riforma del fisco. Battaglia per preparare la futura guerra elettorale. Il leader del PD cerca di ricordare al suo popolo cosa voglia dire essere di sinistra in Italia. Dimenticando però che replicare cliché già disprezzati dal pubblico – dagli elettori – non appare una mossa che possa garantire un probabile successo.

Draghi comprende la mossa tattica di Letta e ignora la proposta in modo lapidario, affermando che non è il momento che lo Stato tolga, ma è quello che lo Stato dia. Ma in cuor suo sa bene che sulla riforma del fisco si giocherà la tenuta del suo governo. Quella è la partita nella quale i partiti vorranno togliersi la maglia della nazionale e indossare quelle di parte, incitando il proprio pubblico con vecchi e cari slogan che ormai hanno assunto lo stato di feticcio ideologico. Meno tasse griderà la curva di destra. Patrimoniale risponderà quella di sinistra.

Probabilmente il ricordo dell’esperienza politica di Draghi sarà tutto incentrato su due sfide: sulla capacità di riportare l’Italia a quel livello di prestigio internazionale smarrito negli ultimi anni e sulla possibilità di ottenere tutti i soldi promessi dall’Europa riformando, oltre la Giustizia, la PA e le regole sugli appalti, il fisco. Quest’ultima riforma sarà la sua Austerlitz o la sua Waterloo.

Del resto sembra proprio che avesse ragione il professor Bottari: la politica è solo politica fiscale e politica estera.

 

Antonello Barone