La scorsa settimana, e poi quella che sta finendo, su “Il Giornale” sono usciti due articoli a firma di Leopoldo Gasbarro che mi riguardano da vicino. Il primo cita una mia stima percentuale “a spanne”. La mia stima calcola il valore approssimativo (circa del 6%) quale soglia massima di costo che un italiano standard potrebbe in teoria sostenere ogni anno pur di avere i suoi risparmi gestiti da professionisti esperti e non in conflitto di interessi. Il secondo a rticolo, invece, è una piccola sintesi di quello che leggerete nelle prossime righe.
Questa “costosa” strategia in luogo della scelta più frequente e cioè quella di utilizzare il personale “fai da te” che risulta in media meno conveniente.
Di quanto? In media, e per tutti gli italiani, approssimativamente del 6%.
A prima vista è un dato molto alto, impressionate, apparentemente implausibile. Nessuno o quasi accetterebbe di pagare così tanto per la gestione dei propri risparmi: la percentuale appare spropositata.
Eppure molti pagano anche di più senza accorgersene perché si affidano al loro personale “fai da te” e questo costa appunto un 6% medio in confronto con una gestione ottimale, per esempio quella del Fondo Sovrano Norvegese o dei patrimoni delle migliori università statunitensi.
Da questo pezzo su Il Giornale è scaturito un dibattito molto partecipato data l’importanza del quesito e le sue conseguenze.
Un docente del Politecnico di Milano si domanda da dove venga fuori questo 6%. Si tratta di un dato medio. E tuttavia la logica con cui viene ottenuto questo dato medio permette ad ogni singolo risparmiatore di fare un calcolo approssimativo di quanto è costato a lui, personalmente, il “fai da te” negli ultimi dieci anni qualora abbia operato con questo criterio, come in effetti ha fatto la maggioranza degli italiani.
In tal caso il “costo” del fare di testa propria o, comunque, in assenza di un esperto o di “expertise” può venire calcolato con una certa approssimazione caso per caso come vedremo più avanti.
Per il calcolo in termini generali, e cioè relativo al risparmio di tutti gli italiani, in primo luogo è necessario definire il perimetro entro il quale opera il “fai da te” e, prima ancora, il perimetro del risparmio totale degli italiani in vista di consumi futuri o di passaggi generazionali.
Ora la Banca d’Italia considera come “risparmio” tutti i beni dove è stato conservato quanto non è stato via via consumato del reddito degli italiani, inteso più precisamente come la quota residua una volta sottratti i debiti (per lo più mutui immobiliari): in termini economici lo stock dei risparmi destinati agli investimenti.
Io qui, per giustificare in modo prudente e riduttivo il 6%, utilizzerò un criterio più stretto che tenga conto della cultura degli italiani e, quindi, di che cosa è considerato dai più consumo, anche consumo a lungo termine sotto forma di servizi (anche immobiliari), e di che cosa è considerato “puro investimento”, puro nel senso che altro scopo non ha che rendere e incrementarsi.
Agli italiani che se lo possono permettere, e sono molti (l’82% delle famiglie), piace possedere la prima casa e, ovviamente meno spesso, anche una seconda casa per le vacanze. Pensano che i figli e i propri cari vi si affezionino e che la prima casa non sia solo una “house”, cioè un servizio per l’abitazione, bensì una “home”, cioè un bene personale a cui ci si affeziona, per usare una consueta distinzione anglosassone che separa la casa come bene affettivo e servizio (la propria casa) dalla casa come investimento che produce redditi (il rendimenti offerti da quello specifico mercato immobiliare). Per questo non amano che la casa sia tassata in quanto la considerano un bene/servizio per il quale ritengono di aver già pagato una volta le tasse quando hanno risparmiato per acquistarlo (o altri lo hanno fatto in loro vece, se si tratta di eredi).
Va quindi isolato il caso dell’acquisto di un’abitazione non per se stessi e i propri cari, bensì come investimento, e cioè sede di allocazione dei risparmi con l’obiettivo esclusivo di un rendimento e di un incremento del valore del capitale.Proviamo quindi a prendere in considerazione e a circoscrivere il valore dei soli immobili acquistati come destinazione di una parte dei risparmi in vista di rendimenti/incrementi: si tratta di circa di duemila miliardi ricorrendo a un criterio prudenziale. Adottiamo un criterio molto prudenziale perché la maggioranza degli italiani, pur vivendo in una “home”, considera, in modo un po’ contradditorio e paradossale, anche questa una forma di risparmio “anche se l’immobile non è stato acquistato con pure finalità di investimento-rendimento-incremento di valore”. In effetti spesso l’immobile, col passare del tempo, cambia funzione e perde la “affezione”.
Così, dopo una o più generazioni, gli eredi se ne disfano e lo vendono (le proprietà condivise con parenti sono spesso fastidiose per vari motivi, se non altro le differenti preferenze e condizioni patrimoniali degli eredi). Se considerassimo in linea teorica come un investimento anche la prima casa, il 6% salirebbe a percentuali più alte perché è la quota di risparmi detenuta come immobili che finisce per penalizzare molto il rendimento del portafoglio complessivamente gestito con il “fai da te”.
Ma qui atteniamoci a un criterio ristrettivo che conduce a una stima di circa duemila miliardi di risparmi investiti nelle case intese come un capitale che deve dare un rendimento-incremento, al pari di reddito fisso e azioni. Sempre con un criterio restrittivo possiamo calcolare altri duemila cinquecento miliardi i risparmi destinati a beni non immobiliari ma mobiliari: conti correnti, conti di deposito, obbligazioni, titoli di stato e (poche) azioni (troppo poche!), tutti esito del “fai da te”.
Qui va tenuto conto del fatto che parte dei soldi tenuti sui conti correnti, attualmente circa 1.700 miliardi di euro, non vanno calcolati come risparmi per investimenti ma come riserve prudenziali “nel caso che succeda qualcosa di negativo”, cioè come una sorta di assicurazione posticcia perché “non si sa mai” (gli italiani tendono purtroppo a non assicurarsi, ma questa è un’altra storia). In teoria si potrebbero tenere tutti questi soldi investiti sull’indice che è più liquido in Italia e nel mondo (quello sullo S&P 500, come si vede ogni primo sabato del mese sul più importante quotidiano economico italiano), dopo essersi assicurati.
Questa sarebbe la scelta ottimale, ma questo è un ragionamento troppo complesso per la cultura finanziaria media dell’italiano investitore/risparmiatore che si assicura secondo i criteri dell’assicurazione comportamentale (qui non ho lo spazio per tale argomento a cui ho dedicato un libro). Sottraiamo quindi 500 miliardi destinati a una sorta di pseudo-assicurazione (non si sa mai!).
Calcoliamo quindi in quattromila miliardi il totale degli investimenti che è stato e viene gestito con il “fai da te” o che è stato suggerito da un presunto esperto in conflitto di interessi (colui, cioè, che ha, per esempio, cercato di indurre il risparmiatore ad acquistare un immobile o un prodotto finanziario sulla cui vendita guadagna lui e/o l’organizzazione per cui lavora). Immaginate ora un consulente preparato che non è in conflitto di interessi oppure, come nel mio caso, una persona che ha fatto da consulente a sé stessa (auto-consulenza) dopo aver studiato e, quindi, investito i suoi risparmi alla luce degli studi e delle conoscenze disponibili e attuali.
A questo punto fate un confronto tra quanto ha reso ogni anno il “fai da te” e quanto avrebbero reso quei quattromila miliardi se investiti sullo S&P 500, sul Nasdaq, o anche sull’indice di tutte le borse mondiali (indice che, per più della metà, coincide di fatto con le borse statunitensi). Nell’ultimo decennio i quattromila miliardi avrebbero reso più del 10% annuo in euro.
Al contrario il “fai da te” non ha reso nulla perché i miseri guadagni del reddito fisso sono stati spazzati via dal calo della metà dei risparmi investita in immobili e il tutto non ha nemmeno compensato l’inflazione.
Ammettiamo però che un risparmiatore abbia investito un po’ in azioni americane e il resto nelle consuete forme di investimento a cui il “fai da te” destina i propri risparmi: a questo punto ha avuto un rendimento reale (cioè disinflazionato) del 4% che sommato al 6% da il 10% di rendimento annuo ottenuto dall’esperto che ha investito tutto sugli indici delle borse statunitensi o, addirittura, sull’indice mondiale. Ecco da dove viene fuori il 6% medio che, purtroppo, per molti risparmiatori/investitori italiani è stata una percentuale superiore.
A partire da marzo 2009 avrebbero potuto più che raddoppiare in termini reali il valore dei loro risparmi. Eppure la maggioranza degli italiani ha perso questa occasione che, probabilmente, non si ripeterà più con questi moltiplicatori favolosi per molto tempo in futuro perché è stato il risultato di fattori eccezionali: assenza di inflazione e banche centrali che hanno ridotto i tassi a zero.
Molte volte, quando nelle conferenze ho sviluppato questo ragionamento, mi è stato giustamente obiettato che il 6% è un dato medio e che la “loro” casa aveva avuto un incremento molto più alto. Quasi sempre questa benefica impressione (o illusione?!) è il risultato del fatto che non si tiene conto dell’inflazione e dei costi di manutenzione. Sulla rivista WSI dell’agosto del 2022 (pp. 67-69) viene condotta una analisi esauriente per rispondere al quesito “Investire in immobili o azioni? Cosa dicono i dati” (questo è appunto il titolo dell’articolo). Il confronto viene fatto tra l’andamento del MSCI World (l’indice delle borse mondiali che è facile da acquistare con prezzi di acquisto e gestione quasi nulli) e le quotazioni delle case suddivise in tre categorie: “grandi città”, “capoluoghi” e “hinterland”. Il dato migliore è quello dele grandi città dove il calo è stato del 30% (in base ai dati del Gruppo Tecnocasa).
Ma consideriamo la migliore delle grandi città e cioè Milano. Ipotizziamo che una persona abbia speso 250 mila euro per l’acquisto di un immobile e valutiamo quello che è successo dopo 10 anni. L’affitto gli ha reso ogni anno circa 10mila euro, a cui vanno sottratte le spese condominiali, le tasse e le spese di manutenzione dell’immobile. Senza andare nei dettagli, per i quali rimando all’articolo citato, dopo 10 anni il nostro investitore, ammettendo che non abbia avuto inquilini morosi, avrà un capitale equivalente in termini reali alla somma investita inizialmente. Il capitale investito nel MSCI World è invece ben più che raddoppiato (238% di incremento, per la precisione).
In altre parole il 6% annuo è la differenza tra la prima scelta, quella prevalentemente immobiliare, e quella del MSCI World. Nei casi specifici, il più delle volte,la differenza è maggiore perché non tutti gli italiani hanno comprato una casa da mettere a reddito a Milano (la miglior località in assoluto), mentre l’ottimo rendimento del MSCI World è stato uguale e proficuo per tutti.Forse tutti questi calcoli sono onerosi o noiosi per il risparmiatore/investitore medio.
Ecco che giunge in soccorso quella che gli psicologi chiamano “euristica”, e cioè una scorciatoia che permette di fare un ragionamento a spanne. Essa consiste nel confrontare l’incremento della più grande borsa, lo S&P 500 statunitense, con quello dei vostri eventuali immobili acquistati per investimento-rendimento-incremento di capitale.
Invece di calcolare le percentuali, prendete il totale dei vostri risparmi destinati a questo tipo di immobili, quelli che vi aspettare vi diano una rendita, e il rendimento dello S&P 500 su base decennale (molto più del 10% come potete vedere ogni sabato sul più importante quotidiano finanziario). Calcolate quanto vi rende ogni anno la casa e quanto sono salite/discese di valore le case vicino e simili alla vostra. Così potete vedere, anno dopo anno, la differenza che in termini decennali è forse meno chiara ai vostri occhi. Se anche questo calcolo è troppo complesso, limitatevi a considerare la somma investita in immobili e quella investita in azioni. Se la prima supera la seconda, il “fai da te” vi ha ingannato e vi ha ingannato tanto più quanto più la prima cifra supera la seconda. Per darvi un criterio di riferimento, il Fondo sovrano norvegese che investe con un orizzonte più che decennale, destina solo il 7% agli investimenti immobiliari.Domanda finale: perché è molto difficile superare queste tendenze erronee del “fai da te”? A questa domanda ho cercato di rispondere nelle due lezioni precedenti.
14 agosto 2022 Paolo Legrenzi