Mancavo da Londra dal 2018, già allora ero rimasto sorpreso dalla vivacità della città (era tanti anni che non la visitavo): gru ovunque, grattacieli che erano spuntati come funghi, una vera metropoli moderna, ricca di culture e persone provenienti da tutto il mondo.
Per uno come me che aveva eletto New York a sua città preferita era stata una vera sorpresa, in positivo ovviamente.
E così l’ho ritrovata in questi giorni: piena di vita, sempre in movimento con la sua splendida rete della metropolitana, i suoi autobus, i suoi taxi, i suoi pub così caratteristici.
Il “fumo di Londra”, che caratterizzava la città tanti anni fa ed era dovuto all’inquinamento causato dai camini che bruciavano carbone (e che portò alla coniazione del termine smog), per fortuna non c’è più.
Anzi abbiamo trovato tre splendide giornate di sole, freddissime ma limpide, ed è stato sempre emozionante passeggiare per Buckingham Road, Chelsea, Piccadilly e Carnaby Street (per me che sono legato alla musica degli anni sessanta questo è come andare alla riscoperta delle origini J).
Stavolta era un viaggio di lavoro: un meeting nella sede londinese di una grande casa di investimento.
Ed è stato decisamente interessante ascoltare direttamente dalla loro voce cosa pensano dell’attuale situazione in merito a inflazione, tassi di interesse, prospettive per i mercati azionari e obbligazionari.
Prima di vedere insieme il resoconto di questo incontro però, un paio di considerazioni: gli inglesi sono un popolo che nella sua storia è stato capace di resistere a Napoleone e a Hitler, che a un certo punto dominava su tre quarti del mondo e Londra era (ed è ancora in molti casi) il centro del mondo economico-finanziario, e quindi supererà anche i danni prodotti dalla Brexit ma è vero che tale scelta ha prodotto danni in quantità (come confermato da chi ci vive): mancanza di lavoratori negli ospedali, nel settore delle costruzioni, nella ristorazione e hotellerie.
Mancano prodotti importanti come generi alimentari e farmaci e l’inflazione, a causa della scarsità, è esplosa.
Un’ultima nota: sul ponte che porta da Westminster al London Eye ho comprato un sacchetto di noccioline pralinate; volendo si può pagare tramite un QR code.
E noi facciamo la battaglia per il contante…
L’incontro è partito con un breve riepilogo dello scorso anno, giusto per ricordare che è stato un “no place to hide year” (un anno dove non c’era un posto dove nascondersi): uno dei pochi anni in cui c’è stata concomitanza nel ribasso (correlazione) sia dei mercati azionari che di quelli obbligazionari, un calo che non si vedeva da 45 anni, figlio di un nemico comune: l’inflazione.
Nel 2023 il rischio più alto è quello della recessione, che gli economisti stimano dovrebbe essere “leggera” e poco profonda ma che ovviamente ancora deve essere valutata; ad esempio è poco chiaro ancora quale potrà essere l’impatto dell’aumento del rialzo dei tassi sui mutui a tasso variabile; quale conseguenza avranno sul mercato immobiliare? E l’effetto rincaro, come peserà sui consumi?.
I soldi gratis sono finiti, le banche centrali stanno tornando a condizioni normali di politica monetaria dopo anni di denaro facile (Quantitative Easing).
Molti sperano in un ritorno alla Goldilocks Economy di qualche anno fa: economia in crescita ma non troppo, inflazione ma non troppa, politiche monetarie un po’ più restrittive ma non troppo; sarà così? Difficile.
Determinante sarà il mercato del lavoro: una resilienza dello stesso (figlia anche del fenomeno detto Great Resignation) determinerà una persistenza dell’inflazione su livelli elevati, viceversa un mercato del lavoro più debole permetterà una discesa più rapida.
I segnali (i cosiddetti leading indicators) vanno verso una recessione: riduzione della massa monetaria in circolazione, politiche monetarie restrittive, inversione della curva dei rendimenti (che di solito prelude a un rallentamento economico).
Nel 2022 le due sole asset class che hanno chiuso l’anno in positivo sono state le materie prime e la liquidità in dollari; per tutto il resto è stato un annus horribilis.
Il 2023 si presenta a due facce: per quanto riguarda il mercato azionario ci sono tante incognite legate alla crescita economica, al livello dei tassi e all’arrivo o meno della recessione, preferiscono ancora i titoli cosiddetti value rispetto a quelli ad alta crescita (growth), titoli di aziende che pagano dividendi elevati, insomma si vuole una ragionevole certezza sulla stabilità di ricavi e utili.
Tutti i gestori invece sono concordi nel dire che i favori vanno al settore obbligazionario, che dopo il “bagno” dello scorso anno si presenta ai nastri di partenza con i rendimenti (yield) più alti degli ultimi 15 anni; e quando in passato ci sono stati anni negativi nei periodi successivi gli investitori pazienti sono stati ampiamente ricompensati.
Massimiliano Maccari, 24 gennaio 2023