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Moda e investimenti: quanto è sostenibile l’industria “fast fashion”?

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Il desiderio di fare shopping, di regalare al proprio guardaroba il capo all’ultima moda, è spesso difficile da tenere a freno, soprattutto in tempi di saldi, in negozio come online. Ma anche quando si parla di abbigliamento è importante che l’acquisto sia consapevole, non diversamente da quando si decide su quali società puntare in Borsa o a quali fondi di investimento affidarsi. Negli ultimi tempi si parla tanto di sostenibilità, quando si acquista e quando si investe. Grazie alle informazioni fornite dalle case di gestione del risparmio, è infatti possibile misurare la sostenibilità degli investimenti a livello di parametri ESG (Environmental, Social and Governance), ovvero l’impatto – positivo o negativo – che le aziende in cui si investe hanno sull’ambiente e sulla società. Questo per allineare i propri investimenti ai propri valori e convinzioni, e per individuare le aziende più performanti nel lungo periodo proprio perché più virtuose, sostenibili e apprezzate dal mercato e dai consumatori. Quando si tratta nello specifico di valutare il settore Moda, entra in gioco una variabile importante, rappresentata dal “Fast fashion”: un’espressione ampiamente utilizzata da consumatori e investitori per indicare sia i capi di abbigliamento indossati solo una o due volte prima di essere dismessi, oppure i marchi in grado di rispondere rapidamente alle ultime tendenze. “Fast Fashion”, a seconda delle sfumature, può quindi assumere una connotazione positiva o negativa per i clienti, per i lavoratori della filiera e per il Pianeta nel suo complesso. Valutare l’impatto di un’azienda di moda sul mondo è complesso. Ecco una mini guida di Schroders, big mondiale del risparmio che gestisce un patrimonio di 815,8 miliardi di euro, a conferma del proprio impegno a promuovere scelte responsabili a beneficio degli investitori e della società. 

 

Moda maglia nera dell’Ambiente

Katherine Davidson – Portfolio Manager, Global & International Equities di Schroders

L’industria della moda rilascia nell’atmosfera più carbonio più di quanto provochino i voli aerei internazionali sommati alle spedizioni navali. A ricordare questo dato allarmante è Katherine Davidson – Portfolio Manager, Global & International Equities di Schroders – aggiungendo che, secondo le statistiche, nel mondo viene bruciato o gettato in discarica un camion pieno di vestiti ogni secondo. Un considerevole danno all’ambiente, visto che il settore è il secondo consumatore di acqua al mondo. “Un solo paio di jeans richiede circa 2.000 galloni di acqua, quanto consumerebbe una persona in 10 anni bevendo otto bicchieri di acqua al giorno”, prosegue Katherine Davidson. E questo è solo il risvolto ambientale, a cui si aggiunge il problema dello sfruttamento della manodopera nei Paesi in via di sviluppo, a cui spesso si appoggia la filiera produttiva. “Dal punto di vista sociale, gli standard lavorativi nella manifattura degli abiti spesso sono insoddisfacenti. Molti brand sfruttano ancora la manodopera a basso costo, pagando i lavoratori meno del salario minimo, considerato come un diritto umano, in quanto rappresenta il minimo di cui il lavoratore necessita per coprire i costi di base per vivere. Esistono altre problematiche sugli standard sanitari e di sicurezza. Un aspetto particolarmente preoccupante è quello del lavoro minorile, che coinvolge oltre 100 milioni di bambini a livello globale, stando ai dati UNICEF 2020. La verità è che quando i vestiti vengono venduti sottocosto, qualcuno nella catena di approvvigionamento ne paga il prezzo”, rimarca l’esperta di Schroders. Ecco perché è cruciale che gli investitori giochino un ruolo attivo nel selezionare le industrie del settore più virtuose, così da indurre con le loro risorse finanziare le realtà meno sensibili a cambiare passo. I gestori dei fondi e più in generale i grandi investitori istituzionali possono infatti raggiungere questo risultato, allocando il capitale solo “su società con modelli di business realmente sostenibili”, conclude Katherine Davidson: “Noi come investitori dobbiamo anche individuare le aziende che stanno rimanendo indietro, per intraprendere con loro attività di engagement e spronarle al cambiamento. Il primo passo è richiedere una maggiore disclosure e trasparenza”. 

 

Le maison sostenibili e la moda circolare

“La sostenibilità guida sempre più i consumatori nella scelta dei marchi e gli investitori nella selezione dei titoli, quindi è importante per noi sviluppare una modalità operativa coerente e solida per valutare questo comparto. Come per altri settori, un investitore deve fare i conti con una moltitudine di sfumature. E questo richiede un esame approfondito”, premettono Charles Somers – Fund Manager e Rodrigo Kohn – European Equities Analyst di Schroders. La società d’investimento ha definito alcune regole per valutare la sostenibilità delle aziende del settore moda: dalle metriche ambientali – quindi emissioni, consumo di acqua, utilizzo di sostanze chimiche pericolose e di materiali sostenibili – all’analisi della catena di approvvigionamento, fino agli sforzi delle maison per creare un ecosistema di moda circolare, sia attraverso il riciclaggio sia incoraggiando il riutilizzo dei capi. In tema di fornitori e diritti umani, si tratta di verificare quali standard vengono imposti, in che misura la filiera è trasparente e controllata, se ci sono denunce in corso per gli eventuali illeciti commessi dalla singola azienda e le misure che questa stessa ha attuato per porvi rimedio. Ancora più complesso è soppesare il fattore “usa e getta”, cioè quante volte i consumatori utilizzano i capi di abbigliamento che hanno acquistato: “Alcune organizzazioni non governative (ONG) – come la Fondazione Ellen MacArthur – stanno sviluppando metriche ed evidenze, ma è un terreno di indagine ancora agli albori”, proseguono gli esperti di Schroders, anch’essa impegnata a definire una serie di parametri ad hoc, partendo dal presupposto che alcuni capi sono indossati dal consumatore medio più volte di altri.

 

Il fattore “usa e getta”, una variabile chiave

Per chiarire l’importanza della variabile “usa e getta” per la sostenibilità, si può considerare la vita di una semplice maglietta, a cui attribuire un impatto negativo sull’ambiente pari a -100 unità. Se questa maglietta viene indossata due volte, allora l’impatto negativo è di -50 per utilizzo; se viene indossata 20 volte, l’impatto scende invece a -5 per utilizzo. A seconda del valore a denominatore, che in questo rapporto esprime appunto il fattore “usa e getta”, cambia quindi molto il risultato della frazione, pur mantenendo inalterato a numeratore l’impatto negativo sull’ambiente di partenza del singolo capo. Schroders – proseguono Somers e Kohn – ha quindi deciso di analizzare i numerosi report sull’impatto sociale e ambientale dell’industria della Moda disponibili sul mercato, utilizzando la lente della variabile “usa e getta”, così da capire come i prodotti sono davvero utilizzati dai consumatori. “Abbiamo preso in considerazione il prezzo medio della gamma di ogni marchio: livelli di prezzo più alti indicano che l’articolo dovrà essere indossato più volte. Abbiamo inoltre analizzato i dati dei sondaggi sulla percezione dei consumatori relativamente a qualità e capacità dei prodotti di interpretare le ultime tendenze: i capi di qualità superiore tendono a essere indossati più spesso, i prodotti più di tendenza potrebbero passare di moda più velocemente e quindi essere indossati meno volte”. Naturalmente, nessuna di queste misurazioni è perfetta ma si tratta di un dato necessario, altrimenti nessuna classifica potrebbe riflettere i fattori di differenziazione chiave tra le aziende in esame, perché gli altri obiettivi sono sempre più standardizzati, come le riduzioni di CO2.

 

La pagella di Schroders ai big della Moda

Tra le aziende valutate, il leader è Adidas mentre Primark/ABF si è classificata ultima. La tabella sottostante classifica il punteggio delle aziende in base alle metriche sociali e ambientali scelte da Schroders e poi “corrette” sulla base del parametro “usa e getta”; il punteggio assoluto non tiene invece conto di tale aggiustamento. L’obiettivo è scattare un’istantanea di alcuni dei maggiori gruppi di abbigliamento e articoli sportivi quotati in Borsa e dei marchi più diffusi, su cui esistono anche dati completi per valutarli. Si può notare come i punteggi sull’impatto sociale di queste aziende si posizionino in un range piuttosto ristretto; “un dato che non sorprende, vista la pressione esercitata dagli investitori sui grandi nomi per migliorare la trasparenza e le loro performance in questo ambito”, nota Schroders. Soffermiamoci però sul caso di Primark: malgrado i notevoli sforzi compiuti dal gruppo per migliorare la catena di approvvigionamento, il punteggio finale corretto per il fattore “Usa e getta” è peggiore di quello assoluto. Simile l’impatto di H&M: il marchio, pur considerato come un leader ESG grazie alle sue positive pratiche ambientali, scende dal secondo al quinto posto della classifica proprio per il comportamento “usa e getta” dei clienti. Al contrario Adidas è al primo posto in classifica sulla base del punteggio assoluto, e gli esperti di Schroders ritengono che la spinta extra fornita dal moltiplicatore sull’“usa e getta” fornisca una rappresentazione accurata dell’approccio dell’azienda alla vera sostenibilità, dato che il gruppo si impegna a produrre vestiti di alta qualità e di lunga durata e ha l’ambizione di sviluppare ulteriormente prodotti di nuova concezione, utilizzando materiali innovativi. Una classifica così concepita è pertanto utile per mettere in luce sia le opportunità sia i rischi di sostenibilità applicati all’industria della moda e può diventare un volano del cambiamento. Schroders infatti non solo considera tale ricerca una parte importante del proprio processo decisionale, al momento di selezionare su quali aziende investire, ma adotta un approccio proattivo, instaurando un dialogo con le aziende considerate sotto alle aspettative per indurle a migliorarsi.

 

 

La Generazione Z boccia il Fast fashion

“Come consumatrice, cerco di fare scelte consapevoli quando si tratta di abbigliamento, ma la realtà è che io da sola non posso compiere queste scelte. Come individuo, le mie azioni significano poco o niente. È impossibile per me tracciare ogni materiale in cui mi imbatto, esaminare la sua impronta di carbonio e la catena di approvvigionamento dell’azienda da cui proviene”, sottolinea Emmie, la figlia tredicenne di Charles Somers. “Ciò di cui abbiamo davvero bisogno – prosegue la giovane – sono dei leader dell’industria che siano in grado di guidarci verso un futuro più sostenibile. Devono smettere di ignorare le richieste dei consumatori consapevoli e degli attivisti del cambiamento climatico. Non si tratta solo di limitare le emissioni nella produzione dei prodotti tessili e di approvvigionarsi di materiali in modo sostenibile, ma anche di ridurre il danno che i desideri e i bisogni della moda provocano lungo tutta la filiera. L’industria deve assumersi la responsabilità di influenzare i clienti, innescando un cambiamento di mentalità con ripercussioni sulla consapevolezza globale”.

 

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