Le Borse sono dominate dalle vendite, come intrappolate dalla paura innescata dalla guerra in Ucraina e da una escalation che sta trascinando l’economia mondiale in recessione a causa della crisi energetica e del caro materie prime. Molti piccoli risparmiatori si stanno precipitando a vendere i propri fondi, azioni e obbligazioni, nella speranza di trovare nel contante un rifugio dalla tempesta perfetta, ma dimenticano l’azione corrosiva che proprio la maxi-inflazione avrà sul tesoretto abbandonato sui conti correnti. Eppure studi e cronache finanziarie dimostrano l’opposto: i periodi di maggiore paura, come quello attuale, si rivelano spesso “a consuntivo”, cioè a distanza di anni, i migliori per gli investimenti azionari. Vediamo perché con l’aiuto di Duncan Lamont, Head of Strategic Research, Schroders, colosso del risparmio gestito britannico con oltre 200 anni di storia alle spalle, più di 898 miliardi di euro di patrimonio in gestione in 38 Paesi nel mondo e un forte focus sulla sostenibilità. Ecco le quattro le ragioni principali per cui non conviene scappare dalla Borse quando tutto sembra volgere al peggio come ora e l’indice della paura (il Vix) è degno di un film horror.
L’azionario per guadagnare sul lungo periodo
Le azioni sul lungo periodo sono meno “pericolose” della liquidità: agli occhi dell’ex Bot People potrebbe sembrare una provocazione, eppure è così. Esemplare il caso del mercato azionario statunitense: Schroders ne ha analizzato quasi 100 anni di dati, scoprendo che, sottolinea Lamont, se si investisse per un mese, “si perderebbe il 40% delle volte in termini corretti per l’inflazione, ossia in 460 dei 1.153 mesi del campione”. All’opposto su “un orizzonte di 5 anni, la percentuale scende al 23% e a 10 anni è del 14%”, prosegue l’esperto. E dall’analisi non è emerso alcun periodo di 20 anni in cui le azioni hanno generato perdite, una volta considerato il costo della vita. Naturalmente è sbagliato investire con lo specchietto retrovisore e seppur le brutte sorprese siano rare sul lungo periodo non se ne può escludere l’eventualità, ma questo non toglie l’importanza del trend che emerge dalla ricerca. Anche perchè “se la liquidità può sembrare più sicura, le probabilità che il suo valore venga eroso dall’inflazione sono molto più alte. E, come tutti i risparmiatori sanno, l’esperienza recente è stata ancora più dolorosa. L’ultima volta che i contanti hanno battuto l’inflazione in un periodo di cinque anni è stato dal febbraio 2006 al febbraio 2011, un lontano ricordo. E non si prevede che la situazione cambierà presto”, avverte il capo della ricerca strategica di Schroders.
Rendimenti solidi, malgrado i terremoti
Da gennaio a maggio di quest’anno il mercato azionario statunitense ha accusato un rosso del 19%. Una perdita senza dubbio importante, ma Schroders invita a guardare più in profondità. Dallo studio emerge infatti che in 28 dei 50 anni precedenti a quello in corso il listino a stelle e strisce ha accusato cali superiori al 10%: nell’ultimo decennio è accaduto nel 2012, 2015, 2016, 2018 e 2020. Ancora peggio è andata otto volte, cioè circa una volta ogni sei anni, quando c’è stata una caduta libera del 20%. Malgrado tutto questo il mercato statunitense ha reso complessivamente l’11% all’anno nell’ultimo mezzo secolo. In sostanza, spiega Lamont, “il rischio di una perdita a breve termine è il prezzo del biglietto d’ingresso per ottenere i guadagni a lungo termine che l’investimento azionario può offrire”.
Disinvestire dopo il crollo può costare la pensione
Vista la crisi in corso, non si può certo escludere che le Borse restino in tempesta, accusando altri ribassi che metteranno alla prova i nervi dei risparmiatori. La tentazione di abbandonare l’azionario e di buttarsi sulla liquidità sarà quindi probabilmente diffusa ma – avverte Schroders – “la nostra ricerca dimostra che, su base storica, questa sarebbe la peggiore decisione finanziaria che un investitore possa prendere”. Ci vorrebbe molto tempo per recuperare le perdite. Vediamo due casi di scuola: 1) gli investitori che si sono rifugiati nella liquidità nel 1929, dopo il primo calo del 25% della Grande Depressione, hanno dovuto aspettare fino al 1963 per tornare al pareggio mentre se fossero rimasti sull’azionario avrebbero raggiunto l’obiettivo all’inizio del 1945; 2) chi è passato alla liquidità nel 2001, dopo il primo 25% di perdite nel crisi delle Dotcom, ha ancora oggi il portafoglio sott’acqua. “Il messaggio è estremamente chiaro: un rifiuto del mercato azionario a favore della liquidità in risposta a un forte calo del mercato sarebbe stato molto negativo in un’ottica di lungo periodo”, evidenzia Lamont. Insomma, attenzione agli autogol.
Tanta paura, ma risultati migliori delle attese
La guerra, la fiammata dell’inflazione e la stretta ai tassi delle banche centrali contro l’inflazione hanno gonfiato il “termometro della paura” del mercato azionario: l’indice Vix che misura la quantità di volatilità attesa dai trader per l’indice statunitense S&P 500 nei 30 giorni successivi. Malgrado questo, la storia insegna, che “è stata una cattiva idea vendere durante i periodi di maggiore paura”, avverte l’esperto di Schoders: “Abbiamo analizzato una strategia di switch, che ha venduto azioni (S&P 500) ed è passata alla liquidità su base giornaliera ogni volta che il Vix è stato superiore a 30, per poi tornare sull’azionario ogni volta che è sceso al di sotto. Questo approccio avrebbe sottoperformato del 2,9% l’anno rispetto a una strategia che è rimasta costantemente investita in azioni dal 1991 (6,7% l’anno contro 9,6% l’anno, senza considerare i costi). Un investimento di 100 dollari in un portafoglio a investimento continuo a gennaio 1990 sarebbe cresciuto fino a valere quasi 2,5 volte di più rispetto a 100 dollari investiti in un portafoglio switch”. In sintesi, il passato non è una guida per il futuro, ma la storia suggerisce che i periodi di maggiore paura, come quello attuale, sono stati migliori per gli investimenti azionari di quanto ci si potesse aspettare.
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