Nel 1972, uno studio del Massachusetts Institute of Technology (MIT) dichiarò che la società industriale avrebbe rischiato di collassare entro il 2040. Dopo aver ricevuto una commissione dal Club di Roma (il gruppo internazionale di importanti accademici, scienziati, economisti e leader politici), gli scienziati del MIT utilizzarono un modello di dinamica sistematica, noto come World3, per esaminare il futuro dell’umanità. Il rapporto che ne scaturì, dal titolo “The Limits to Growth”, arrivò a identificare “i limiti dello sviluppo” che porterebbero il nostro mondo industriale a collassare proprio nel corso del XXI secolo, a causa dell’incontrollato sfruttamento del pianeta.
La ricerca di ieri e di oggi
Gli scienziati del MIT, nel rapporto poi pubblicato nel libro omonimo The Limits to Growth (1972), sostenevano che la civiltà industriale sarebbe giunta alla sua condanna se le imprese e i governi avessero continuato a perseguire una crescita economica ad ogni costo. I ricercatori proposero quindi dodici scenari futuri, la maggior parte dei quali prevedeva che le risorse naturali sarebbero diventate scarse al punto che un’ulteriore espansione economica sarebbe stata impossibile e il benessere personale sarebbe sceso.
Se al momento della sua pubblicazione la controversa analisi del MIT generò un acceso dibattito, oggi è tornata alla ribalta perché convalidata dallo studio condotto da Gaya Herrington, direttrice delle analisi in sostenibilità e dinamica dei sistemi alla KMPG, una delle quattro società contabili più importanti al mondo.
Lo studio, intitolato “Aggiornamenti sui limiti della crescita e dello sviluppo: confronto del modello ‘World3’ con i dati empirici,” cerca di stabilire quanto questo modello del MIT regga contro i nuovi dati disponibili. In esso sono stati analizzati i dati dello studio del MIT studiando dieci variabili chiave: popolazione, tasso di natalità, tasso di mortalità, produzione industriale, produzione alimentare, servizi, risorse non rinnovabili, inquinamento, welfare e impatto ambientale.
Si è scoperto che i dati più recenti sono in linea con due scenari specifici: “BAU2,” ovvero “business-as-usual”, inteso come lo status quo attuale con un’attenzione particolare allo sfruttamento delle risorse, e “CT,” ovvero “comprehensive technology” cioè “tecnologia di vasta portata”, per intendere uno scenario di innovazione tecnologica. Entrambi gli scenari indicano che non è possibile continuare in questo modo, inseguendo un incremento continuo.
Persino se associato a sviluppi tecnologici senza precedenti, il “business-as-usual” porterà inevitabilmente al declino del capitale industriale, della produzione agricola e del welfare, tutto entro la fine del secolo. Ma sarà davvero così?
Nel modello World3, come afferma l’autrice, il collasso “non implica la fine dell’umanità”, ma piuttosto “l’interruzione della crescita economica e industriale, seguita dal declino, che avrà ripercussioni sulla produzione alimentare e sugli standard della vita quotidiana… Per quanto riguarda le tempistiche, lo scenario BAU2 mostra un declino netto intorno al 2040”.
La morale della storia, secondo l’opinione di Herrington sulle pagine del “Guardian”, sarebbe che il “business-as-usual”, un approccio che ha peggiorato il cambiamento climatico globale e non è riuscito a mitigare i disastri meteorologici risultanti, porterà probabilmente al crollo economico e sociale (sempre secondo la visione di Herrington).
La civiltà industriale potrebbe essere sulla buona strada per il collasso e l’attuale civiltà globale sarebbe diretta verso il declino definitivo della crescita economica, che avverrebbe entro un decennio e che potrebbe scatenare il collasso della società intorno al 2040. Ma c’è anche chi smentisce questa visione. Per approfondimenti, lo studio è stato pubblicato a novembre del 2020 sul “Yale Journal of Industrial Ecology” ed è disponibile per la consultazione sul sito della KPMG.
Ci sono speranze?
Sempre secondo l’opinione di Herrington, se la gente avesse ascoltato lo studio originale, il pianeta avrebbe potuto essere in condizioni migliori. Tuttavia, la direttrice crede anche che non sia troppo tardi per cambiare il nostro comportamento. “Siamo totalmente in grado di fare enormi cambiamenti”, ha spiegato ancora, “lo abbiamo visto con la pandemia, ma dobbiamo agire ora se vogliamo evitare costi molto maggiori di quelli che stiamo vedendo”.
Detto questo, sono convinto che il comportamento dell’essere umano risponda a tre domande fondamentali: le mie azioni sono sostenibili per me? Le mie azioni sono sostenibili per l’altro? Le mie azioni sono sostenibili per l’ambiente? Se la risposta è “sì” in tutti e tre i casi, allora posso procedere, altrimenti devo riformulare la domanda, modificare qualcosa e trovare un’altra soluzione.
“In questo momento, i dati ci portano in gran parte verso gli scenari più funesti, verso il rallentamento e l’interruzione della crescita economica, ma lasciano anche sospesa la possibilità che al declino segua necessariamente il collasso”, ha concluso lo studio citato. Nonostante lo scenario del mondo stabilizzato “sia quello meno probabile, un deliberato cambio di traiettoria della società, verso un obiettivo diverso da quello della crescita, è ancora possibile. Tuttavia, questo spiraglio di possibilità si sta chiudendo piuttosto velocemente”.
L’essere umano ha quindi la possibilità di fare la scelta giusta, superando crisi e modelli e aumentando le sue competenze nel totale rispetto di sé stesso, del prossimo e dell’ambiente, come ho appena detto. Da anni parliamo di “decrescita”, e ora più che mai dovremmo farlo, anche considerando la crisi russo-ucraina: si tratta di un approccio agnostico alla crescita, un approccio in grado di focalizzarsi anche su altri obiettivi economici, su priorità politiche e amministrative in funzione dell’ambiente e del sociale. Perché probabilmente quello che decideremo di fare nei prossimi dieci anni determinerà il destino della civiltà umana.
Umberto Macchi, 21 marzo 2022