Questa pandemia ha portato un grande insegnamento, alla politica, all’impresa, al lavoratore, alla società tutta che bisogna sempre essere pronti ad affrontare imprevisti che mai ci saremmo sognati di dover affrontare.
Tra le altre cose è stata anche la causa della differenziazione tra le imprese, quelle che hanno continuato ad investire come se il covid non ci fosse a prescindere dal crollo del fatturato e che non sarà recuperabile sicuramente nel corrente anno, quelle che hanno capitalizzato per mantenere le aziende solide ed efficienti e possono uscire da questa crisi meglio delle altre che invece sono state amministrate in modo molto più leggero e faranno sicuramente più fatica a riprendersi.
E’ evidente che la crisi ha colpito di più in alcuni settori che ne escono veramente in ginocchio rispetto ad altri come la categoria degli alimentari per fare un esempio che non ha conosciuto la crisi del momento.
Ma per chiudere il cerchio bisogna gettare un occhio anche verso i consumatori che questa grande crisi ha già ridisegnato, ci saranno coloro che avevano già ricchezza e rimarranno tali e gli altri che erano meno abbienti e ne usciranno più poveri, un disequilibrio che non deve assolutamente diventare strutturale.
Ed è qui che entra in discussione posizionandosi in prima linea le politiche attive, che dovranno essere determinanti per riportare quell’equilibrio sociale ed economico che mantiene la stabilità di un paese, d’altra parte gli italiani sono un popolo di lavoratori che alla politica dell’assistenzialismo preferiscono la garanzia di un lavoro che porti loro serenità economica e soprattutto dignità e in questo il governo Draghi deve fare la differenza rispetto al precedente Governo sin troppo assistenzialista.
Ma cosa sono le politiche attive per il lavoro?
Le politiche attive sono quelle tutele che si orientano verso il lavoratore più che verso il posto di lavoro e saranno decisive nel mondo che sarà dopo la pandemia.
Ci aspetterà un mercato del lavoro completamente diverso dall’attuale con nuovi lavori, dove si lavorerà in maniera diversa, forse si lavorerà meno, si lavorerà da casa ed è per questo che sarà quanto mai indispensabile tutelare il lavoratore e non il posto di lavoro.
Alla luce di tutto ciò e, considerato quello che ci attende nell’immediato futuro, viene da chiedersi: il nostro paese è pronto ad affrontare questo grande cambiamento?
Prima si inizierà ad affrontare con azioni ben mirate questo cambio culturale, da parte del Governo e delle Regioni, meglio sarà per la nostra società che dovrà evitare assolutamente quelle conseguenze disastrose previste per il 30 giugno, dove sono a rischio un milione di posti di lavoro ai quali vanno sommati 600 mila contratti a termine.
La formazione, parte essenziale di questo processo evolutivo, dovrebbe iniziare ad attivarsi addirittura nelle scuole come accade in Germania da anni, dove la dualità che permette i tirocini degli studenti nelle imprese, in aggiunta allo studio in aula, comporta sia la loro assunzione, sia ovviamente, ad un calo della disoccupazione non indifferente.
L’Italia sotto questo punto di vista è stata molto assente, anzi, il precedente Governo non ha investito in questo tipo di formazione e questi strumenti invece, se potenziati, potevano essere oggi di grande aiuto come lo sono stati negli altri paesi europei.
La formazione che è la parte principale e portante delle politiche attive, dovrebbe ripartire oltre che dai giovani, dalla formazione continua ancora più necessaria sia si, per i giovani ma anche e soprattutto per investire sulle persone, contribuendo a quella trasformazione capace di aiutare a cambiare il profilo professionale a coloro che all’eta di 45/50 anni si ritrovano nello stato di disoccupazione e che magari operavano nei settori più colpiti dalla crisi come il commercio, i servizi del terziario, il turismo.
Nel Nord Europa già da anni si investe nella riqualificazione, passaggi dal settore del metalmeccanico ad esempio, all’industria del turismo, sono nell’ordinario, paesi capaci di ricollocare ovunque i loro lavoratori, cosa che non accade in Italia, dove si è perso troppo tempo sotto questo punto di vista, dove si è troppo speso per le politiche passive e troppo tralasciato le politiche attive, ed oggi che siamo in emergenza questo ritardo affiora in modo evidente mettendo in luce tutta la debolezza del nostro sistema lavoro e, il 30 giugno è sempre più vicino.
Quella che ha portato la pandemia è di fatto una crisi strutturale, molti lavori come già detto andranno sicuramente a scomparire e, molti altri ne verranno creati, quindi, il blocco dei licenziamenti è stata certamente una risoluzione ma sicuramente temporanea non capace di risolvere il problema alla radice, cosa possibile invece attraverso una incisiva, adeguata e mirata formazione che potrà ricollocare i tanti lavoratori a rischio, che poi sono sempre le stesse categorie ad essere penalizzate: i giovani e le donne perché più esposti nei settori colpiti dalla crisi e perché titolari di contratti poco tutelati.
I centri impiego, braccia delle politiche attive che sino ad oggi sono stati poco proficui nonostante i navigator, dovranno essere determinanti nei prossimi mesi, come lo sono da anni i servizi per l’impiego dei paesi del Nord, non si può più perdere del tempo prezioso visto che lo tsunami è alle porte e la politica deve assolutamente adoperarsi in tal senso.
Lorena Polidori