Apple e la “questione cinese”: quando è il mercato a decidere

Apple di recente sta dando molta importanza alla questione della privacy, ma sembra che sul territorio cinese valgano delle regole diverse dal resto del mondo. Si tratta di una scelta voluta oppure la conseguenza di qualcosa di più grande?

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Recentemente Apple si è profusa ampiamente per quanto concerne la questione della privacy e negli ultimi tempi essa si è elevata come la paladina dei consumatori, preoccupati che i propri dati finissero nelle mani sbagliate… o questo almeno è quello che ha fatto nel mondo occidentale. Se infatti in America ed Europa Apple ha lanciato iOS 14 dotato della funzione App Tracking Transparency per bloccare ogni tipo di tracciamento dati non desiderato dall’utente, in Cina la compagnia della mela ha applicato una politica ben diversa e ha ceduto tutti i dati dei propri utenti presenti nel Paese sotto il diretto controllo del governo locale.

 

Due pesi e due misure?

Partiamo subito col dire che la situazione in Cina per le compagnie estere è tutt’altro che rosea: non è un mistero infatti che il governo cinese cerchi di favorire al massimo le proprie industrie nazionali tenendo sotto controllo quelle estere. Apple d’altrocanto, come tutta una serie di marchi di un certo prestigio molto in voga tra le classi più ricche della popolazione, ha sempre goduto di un certo favore da parte delle alte sfere rispetto a molte altre realtà più piccole.

Un report del New York Times pubblicato nelle scorse settimane però ha svelato come anche il colosso americano sia dovuto scendere a compromessi con le imposizioni poste da Pechino, accettando un accordo che prevede lo spostamento e la successiva gestione dei dati degli utenti cinesi su server fisicamente controllati dal governo locale. Lo scopo di questa manovra delle autorità cinesi è quello di avere libero accesso all’incredibile numero di informazioni fornite dai dispositivi Apple sulle attività quotidiane della popolazione, così da poter rafforzare la propria politica di controllo sui cittadini.

Oltre a questo lo stesso report svela molti altri dettagli riguardanti l’accordo, tra cui tutta una serie di app rimosse dall’App Store sulla base di criteri arbitrari stabiliti dal governo. La lista comprende circa 55.000 app, divise tra 35.000 giochi e 20.000 altre app di vario genere, bloccate per i motivi più disparati: nel caso dei giochi essi devono prima essere sottoposti ad un controllo per accertare che non mettano in discussione le autorità o i valori promossi dal Partito, mentre per le altre app di solito viene verificato che esse non trattino temi politicamente controversi o scomodi.

Da un lato abbiamo quindi una Apple che si è apertamente scontrata con Facebook per le sue regole apparentemente intransigenti quando si parla di tutela del consumatore in territorio americano, mentre dall’altra un’azienda pronta a collaborare con un governo totalitario per cui la privacy non è un diritto su suolo cinese: due posizioni antitetiche portate contemporaneamente avanti dalla stessa compagnia.

 

Chi detta legge

È tutto qui dunque? La Cina ordina e Apple prontamente obbedisce tradendo i valori che nel resto del mondo professa con tanta foga? In un mondo perfetto, in cui ogni cosa potesse essere ridotta al binomio giusto/sbagliato sarebbe semplice dire che la compagnia americana stia “vendendo” i propri principi pur di rimanere sul mercato cinese, ma sfortunatamente la realtà non è mai così semplice.

Pensiamoci un attimo: Apple ha davvero una scelta in questa situazione? Poniamo caso che l’azienda di Cupertino rifiutasse quanto impostogli dal governo e si mantenesse fedele alla politica di rispetto della privacy applicata nel resto del mondo: cosa succederebbe? Il governo della Cina accetterebbe senza fiatare questa presa di posizione? Io ne dubito fortemente: anche senza voler considerare la questione legale, che è ovviamente dalla parte della nazione asiatica (dato che sono loro a fare le leggi), dal punto di vista economico questa decisione si trasformerebbe in un vero suicidio imprenditoriale.

Bisogna infatti considerare che la Cina è il mercato più importante al mondo per quel che riguarda l’hi-tech e tagliarsene fuori corrisponderebbe ad un tracollo economico senza precedenti. Per quanto moralmente si potrebbe dire che non ci sono giustificazioni a certi compromessi, bisogna prendere in considerazione anche che tali decisioni non andrebbero a ripercuotersi solo su gli introiti di Apple: è giusto che per una scelta ideologica fatta dalla compagnia migliaia di persone perdano il lavoro? A questo infatti si arriverebbe se per caso l’azienda della mela decidesse di schierarsi apertamente contro il governo di Pechino: non passerebbero due settimane che tutti gli stabilimenti Apple su territorio cinesi verrebbero chiusi o sequestrati, visti anche certi precedenti con altre società straniere.

In questo senso è emblematico anche l’esempio datoci proprio in questi giorni da diverse multinazionali, prima tra tutte Mercedes. Dai primi anni 2000 Giugno è stato dichiarato ufficialmente Pride Month, cioè un mese dedicato alla celebrazione della comunità LGBTQ+ e alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla questione. A partire dal 1° Giugno di quest’anno molte società internazionali, per mostrare la loro solidarietà all’iniziativa, hanno modificato i propri loghi aziendali sulle tutte le proprie pagine social tingendoli coi colori dell’arcobaleno, simbolo per antonomasia del Pride, e inneggiando all’inclusività per tutti.

Fin qui non ci sarebbe nulla da dire senonché in realtà questa strategia è stata applicata solo nelle nazioni che già di per sé sono favorevoli o neutrali verso le proprie comunità LGBTQ+, al contrario escludendo volutamente certe zone del mondo quali ad esempio la Turchia, il Nord Africa e la Russia dove invece il tema della libertà sessuale è visto ancora in maniera negativa. Volendo anche qui escludere per un attimo la questione legale e i Paesi dove l’omossessualità viene perseguita penalmente (come l’Arabia Saudita e il Qatar, tanto per citarne due), come dovrebbe essere interpretata la questione?

Come prima per Apple anche queste compagnie non hanno avuto oggettivamente una scelta: se si fossero schierate a favore del Pride si sarebbero tagliate letteralmente fuori dai mercati in questione, non solo perdendo milioni in termini di guadagni e danni d’immagine ma soprattutto rischiando di veder fallire le loro attività in quei Paesi. Dobbiamo dunque considerare questa linea d’azione come un atto di codardia e opportunismo da parte delle multinazionali, a parole pronte subito a schierarsi a favore della giustizia sociale ma poi nei fatti interessate solo ai dividendi, oppure più onestamente come la dimostrazione che un’azienda non ha davvero voce in capitolo quando si parla di certe scelte e ciò che detta legge è il mercato di riferimento e non le convinzioni personali?

Si tratta senza dubbio di un argomento controverso e che presenta diversi punti opinabili, ma certo è che non si può dare sempre per scontata la libertà di scegliere: a volte le circostanze e le situazioni scelgono al posto nostro e possiamo solo adattarci al meglio delle nostre possibilità.

 

 

 

Umberto Macchi

 

 

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