Negli ultimi giorni l’attenzione finanziaria nel nostro Paese è stata polarizzata dalla nuova emissione del BTP Italia, che tra retail ed investitori istituzionali ha fatto il pienone con oltre 22 miliardi di raccolta.
La motivazione prevalente che ha spinto molti risparmiatori privati a questo rinnovato interesse per il titolo di stato è imputabile da un lato al tasso minimo offerto in collocamento (1,40%, al netto di inflazione e premio di fedeltà) e dall’altro ad una percezione di rischio dello strumento assai ridotta.
In generale, come noto, quando si valuta l’opportunità di un investimento andrebbero confrontati proprio questi due fattori: ritorno e rischio atteso.
Con riferimento al primo elemento, non ci sono dubbi sul fatto che il rendimento a scadenza del titolo appaia interessante non solo al cospetto di molte altre emissioni governative, ma anche dello stesso BTP tradizionale già scambiato sul mercato secondario, che sul medesimo orizzonte temporale (5 anni) offre un tres inferiore rispetto al BTP Italia.
Con riferimento al secondo elemento, tuttavia, i numeri sembrano smentire il sentir comune dei più. Ancora una volta, sembra confermata la regola di friedmaniana memoria del “No Free Lunch”. Nessun pasto gratis insomma, nemmeno in questo caso.
Se davvero, come è largamente percepito, non esistesse alcun rischio di controparte, per quale motivo il rating dell’Italia si posiziona nella parte bassa dei titoli investment grade, ad un solo passo dai “junk bond”?
Oppure, per quale motivo gli spread rispetto ad altri Paesi europei sono così accentuati? Non solo nei confronti dei Paesi del Nord Europa, notoriamente più virtuosi sul piano dell’equilibrio di bilancio, ma anche nei confronti dei Paesi mediterranei l’Italia è costretta a pagare di più il suo debito. Addirittura, sulla parte a 5 anni della curva, il rendimento offerto dalla Grecia è minore!
O ancora, per quale motivo i credit default swap dell’Italia sono superiori ai 200 punti base, quando per assicurarsi contro l’insolvenza di Germania, Olanda, Belgio e Francia si paga fino al 90% in meno?
Sono semplici considerazioni guidate dalla logica, prima ancora che dalla consapevolezza tecnica di ciascun indicatore menzionato, che dovrebbero far ragionare circa la seguente domanda: il tasso minimo dell’1,40% è davvero così attraente ed imperdibile, come abbiamo sentito con frequenza negli ultimi giorni?
Nei numeri, la risposta è negativa.
Nei numeri, il rendimento offerto è figlio di una percezione al rischio che per il nostro Paese è strutturalmente superiore rispetto a quella di molti altri partner europei, e che negli ultimi mesi si è ancor di più accentuata durante l’emergenza sanitaria prima e finanziaria poi.
Inoltre, se solo si allarga l’analisi ad una serie di indici obbligazionari internazionali, abbandonando quella forte tendenza all’home bias che ci contraddistingue, si intuisce come la discesa delle quotazioni in questa prima parte del 2020 abbia riguardato anche molti segmenti del reddito fisso, portando in dote rendimenti nuovamente interessanti su tanti mercati.
Dati alla mano, una efficiente diversificazione consente oggi di cogliere migliori opportunità di rendimento, annullando in primis quel rischio specifico che nella migliore delle ipotesi è inutile, ma che molto più spesso si rivela dannoso.
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