Economia

Capire gli indici per valutare il mercato

Una combinazione, verificata come casuale, ha consentito di confrontare due contributi interessanti sul tema del significato degli indici di Borsa nel valutare la congruità del loro livello raggiunto su livelli massimi in un contesto macro-strutturale che, secondo alcuni, potrebbe non giustificarli.

Inoltre, il confronto fra diversi indici ha evidenziato differenze nei risultati che sono riconducibili al modello, differente, con cui gli stessi indici sono calcolati, rendendo il relativo confronto poco significativo. Come al solito, solo l’approfondimento dei metodi e dei dati può consentire di comprendere i dati senza incorrete in comparazioni non corrette e di valutare se i mercati esprimono andamenti che trovano adeguate giustificazioni.

Propongo tre premesse indispensabili per leggere quanto emerge dall’esame dei dati:

  1. l’analisi proposta dai contributi citati si basa sull’utilizzo dell’analisi tecnica; alcune valutazioni qui proposte tengono conto invece di elementi riconducibili all’analisi fondamentale; in questo caso la seconda supporta la prima e propone una poco consueta analisi combinata e non comparata;
  2. nella prassi usuale gli indici si distinguono fra quelli “equally weighted” (che classificano l’evoluzione del valore di mercato delle azioni considerate) e quelli “ponderati” per volumi di transazioni e capitalizzazione degli strumenti quotati;
  3. in realtà viene sollecitata attenzione anche sulla scelta di calcolare il livello degli indici inserendo o meno nel prezzo considerato il reinvestimento dei dividendi, inteso come cash flow dell’impresa che, comunque, remunera l’investitore; una distinzione fra total return e capitalizzazione netta della società; sorge l’interesse nel valutare quale sarebbe la comparazione dei risultati dell’indice utilizzando l’uno il metodo dell’altro; logicamente e per consuetudine, gli equally weighted gestiscono valori total return e i ponderati scorporano i dividendi utilizzando solo il prezzo dell’azione sul mercato (che incorpora l’attesa dei dividendi futuri (corso tel quel) e non l’ammontare di quelli già distribuiti.

Inoltre, è utile aggiungere un’altra considerazione meno “tecnica” e più “fondamentale”: l’indice italiano e la Borsa Valori in generale soffrono della mancanza di aziende “nuove” che conquistano capitalizzazione e valore rapidamente scalzando aziende più value e mature. La salita di altri indici è dovuta anche all’ingresso nella composizione di aziende che in pochi anni hanno acquisito un valore capitale di migliaia di miliardi generando crescita degli indici.

Tuttavia, gli indici ponderati evidenzierebbero livelli ben superiori considerando la consuetudine di distribuire dividendi anche elevati, soprattutto ove la governance delle società reclamasse, per la composizione dell’azionariato, una remunerazione continua ed elevata dell’azionista interessato ad un utilizzo “personale” del risultato aziendale e non il reinvestimento all’interno della società stessa.

Venendo alla situazione italiana, le metodologie storiche del FTSE (e del nuovo EURONEXT) applicano il metodo ponderato e si confrontano con gli indici statunitensi e tedeschi che utilizzano l’equally weighted. Il primo premia le aziende con capitalizzazione maggiore (che dominano le classifiche) e il secondo tiene in debito conto anche le aziende minori in grado di accrescere il valore unitario delle proprie azioni indipendentemente dalla capitalizzazione totale. Se si aggiunge il citato fattore “dividendi” l’asimmetria si accresce ulteriormente.

La comparazione non è peraltro semplice e le due analisi citate giungono a risultati molto differenti pur partendo da basi e da periodi considerati simili fra loro. La motivazione tecnica delle differenze non è certo un errore, ma la considerazione nel computo dei dividendi di tutti gli anni presi in considerazione e non solo gli ultimi.

Come è noto non esiste un indice migliore di altri in assoluto; ciascuno risponde alle finalità dell’investitore; semplificando ma interpretando la realtà, si tratta di prendere in considerazione la propensione verso investimenti in società dedite alla remunerazione con dividendi per gli azionisti e quella verso aziende che capitalizzano il risultato dopo le imposte e lasciano al mercato secondario l’opportunità per gli azionisti di ottenere – vendendo parte delle proprie azioni – cash flow dai propri investimenti.

Secondo una lettura scientifica e statistica, il secondo metodo alimenta le negoziazioni, consente una maggiore movimentazione dei titoli (accresce di fatto il flottante effettivo e non solo quello normativamente definito come tale) ed evidenzia il prezzo più fair delle singole azioni espresso dalle quotazioni del mercato che comprendono investitori nuovi, investitori già impegnati sul titolo ma cercatori di flussi di cassa e quelli che utilizzano i profitti aziendali per accentuare il loro peso all’interno delle aziende. In altri termini, questa ultima scelta esalta le funzioni di ampiezza, spessore e profondità dei mercati efficienti, alimenta la dimensione degli scambi e, nei fatti ma non necessariamente sotto un profilo teorico, favorisce la ricomposizione più rapida dell’azionariato delle singole società: un capitalismo di mercato in comparazione con il capitalismo familiare con il quale viene letta la condizione tipica del mercato italiano.

Infine, con lo scopo di facilitare il confronto andamentale dell’evoluzione degli indici, dobbiamo considerare che i dividendi sono pagati in date tradizionali (nel secondo o nel terzo trimestre dell’anno), mentre le scelte di vendita di parte delle proprie azioni si distribuisce più uniformemente nel tempo secondo le esigenze dei singoli azionisti e secondo le diverse valutazioni di convenienza degli stessi. Un ulteriore elemento di stabilizzazione dei mercati con minore enfasi sulle scadenze tecniche.

Solo per completezza, cito il caso delle banche comunitarie quotate che, non per singola scelta, hanno annullato la distribuzione dei dividendi negli ultimi esercizi su esplicito invito condizionante dell’Autorità di Vigilanza, rendendo più difficile la comparazione verticale (rispetto all’andamento dei titoli negli anni precedenti o in quello corrente, dove la remunerazione è di nuovo consentita) e quella orizzontale con aziende dello stesso settore, ma fuori dalla UE, prive di questo vincolo nello stesso periodo.

Per ulteriore precisione è necessario ricordare che, nel mercato ufficiale italiano, esiste un indice FTSE che esprime un andamento più simile a quelli “equally weighted” e cioè lo STAR, in ossequio alle caratteristiche peculiari di molti dei titoli quotati più orientati verso strategie growth e non value, meno disponibili a pagare dividendi per accelerare la loro crescita tramite la capitalizzazione dei risultati d’esercizio.

Il metodo è sempre quello FTSE, ma le aziende che compongono gli indici accostano i propri modelli di gestione dell’EBITDA alle caratteristiche dei mercati dei capitali precedentemente descritti. Un messaggio implicito e non esplicito che può attrarre investitori diversi nelle proprie attese rispetto alle sollecitazioni indirizzate da altri comparti di Borsa Italiana verso investitori potenziali o già a libro soci.

E’ plausibile anche un’altra lettura: non pagare dividendi in una logica difensiva per trattenere i risultati d’esercizio per disporre di maggiore cash flow aziendale può sollecitare la propensione dei soci a vendere azioni per realizzare il proprio cash flow. Nel caso vi è prevalenza delle vendite con ribasso dei valori e può indurre altri soggetti a non essere interessati agli acquisti per il duplice effetto di dividendi scarsi e prezzi in discesa. In altri termini, un impatto prociclico. Per contro, limitare i dividendi a fronte di EBITDA brillanti può creare l’effetto contrario, consentendo di incrociare le vendite di chi desidera incassare la propria parte dei profitti con la domanda di altri investitori attratti dall’attesa di futuri EBITDA interessanti.

Rimando ai seguenti link chi fosse interessato ad un’analisi personale dei contributi dai quali è originato il mio interesse:

https://it.linkedin.com/pulse/indici-italiani-capital-vs-total-return-dividendi-o-guido-gennaccari

https://www.ilsole24ore.com/art/perche-l-effetto-dividendi-milano-vale-40mila-punti-e-avvicina-record-storici-AENmTnw

https://www.bluerating.com/mercati/744928/mercati-divendi-attesi-ancora-in-ascesa

https://fchub.it/perche-la-borsa-corre-mentre-leconomia-frena/  (pubblicato nell’agosto 2020)

In conclusione, l’indice US SP500 e il Dax hanno superato nel 2021 i livelli massimi raggiunti nel 2007. L’indice italiano FTSE-Mib è tornato invece solo ai valori di settembre/ottobre 2008, ma resta distante dai massimi storici dei primi anni ’00. Vi sono molteplici motivi macro-strutturali per spiegare il maggior livello delle capitalizzazioni statunitensi e tedesche, ma la valutazione tecnica degli indici che ne rappresentano la dinamica deve essere considerata anche perché può influenzare le scelte di molti investitori e la disamina dei risultati di quegli investimenti quali gli ETF e molti certificates che replicano o seguono gli indici di Borsa.

Nell’ottica di disporre di sempre maggiori informazioni, sarei propenso ad immaginare per tutti gli indici principali la pubblicazione ufficiale di entrambi i valori, total return e al netto dei dividendi pagati, per trasparenza e per valutare la crescita o la diminuzione delle differenze, in ragione delle diverse governance societarie adottate.

 

Giuseppe Santorsola, 22/11/2021