Colonizzare un territorio, sottomettendo la sua popolazione, è un concetto del passato. Un’epoca brutale dove gli occidentali, con il loro “primato” tecnologico, religioso e culturale, sciamavano per il mondo portando civiltà, religione, modernità e libertà.
La tecnologia digitale, e tutte le innovazioni che essa porta con sé, è una valida soluzione per colonizzare non solo nazioni, ma interi continenti, in modo più pacifico e meno “criticabile” dai media.
Consideriamo alcune delle tecnologie recenti più interessanti: cloud, algoritmi predittivi, sistemi di acquisizione di dati in grandi volumi (big data), fintech etc..
Sono il futuro dell’Occidente e della Cina.
Ma cosa succede quando si dispiega la più elevata tecnologia in un territorio dove non vi sono apparenti competitor? Colonialismo digitale.
L’Africa, di tutti i continenti ri-colonizzabili, è il candidato migliore.
Il pensiero comune è che la tecnologia sia neutrale: un algoritmo per prevedere i consumi, tramite la raccolta e analisi di dati delle singole scelte, funziona in America come in Nigeria. Lo stesso può dirsi di un’analisi medica come l’analisi predittiva del tumore al seno: dopo tutto un seno africano e uno italiano sono pur sempre ghiandole mammarie della stessa specie animale. Cambia solo la pigmentazione della pelle.
Le cose non funzionano in modo cosi naive. Shoshanna Zuboff, autrice di “Il capitalismo di sorveglianza” spiega che il percorso di conquista si dispiega in tre fasi.
- Il potere coloniale inventa misure legali per giustificare la propria invasione (Shock & Awave)
- Viene confermata la dichiarazione di annessione territoriale (in modo legale e culturalmente accettabile)
- Il colonialista crea una serie di sovrastrutture sociali, economiche, legali per imporre al territorio conquistato la nuova realtà
Prima fase: Shock & Awave
Diffondere una tecnologia, che può espandersi in modo virale (in gergo scalare), è il primo passo. Il veicolo per diventare virale in Africa sono i cellulari. L’Africa ha una forte penetrazione di cellulari. Per quanto la maggioranza siano di fascia di prezzo media, o medio bassa, la crescente diffusione di smartphone permette di avere una “piattaforma (il cellulare stesso, che include differenti app terze)” di raccolta dati, presso la maggioranza della popolazione. Utilizzare gli smartphone come “vettore virale” è la soluzione più pratica e impercettibile. La maggioranza dei sistemi operativi (di seguito OS) che girano sulle piattaforme africane sono made in USA.
La penetrazione di internet in Africa è, mediamente, del 40% (39.2%) per dare un termine di paragone nel resto del mondo è del 63%. Una differenza tutto sommato modesta per quella che comunemente chiamiamo “terzo mondo”.
Una delle maggiori piattaforme digitali utilizzate in Africa è Facebook, con una penetrazione su cellulari (il principale strumento con cui i nativi accedono alla rete) che raggiunge circa 212 milioni di africani (dati chiusura 2019). Se consideriamo che la classe emergente africana, quella disposta a comprare e spendere, è per lo più la fascia dai 15 ai 45, il numero di utilizzatori di Facebook rientra pienamente in questa fascia.
I 5 brand di smartphone più venduti in Africa sono Transsion (36.7%) OS Android, Samsung (18.8%) OS Android/Tizen, Huawei (11%)OS Android in futuro Harmony, Oppo (6%) Color OS (basato su Android), Xiaomi (5%) OS Miui (basato su android).
Con la scelta di rendere Android un software open source Google ha fatto si che molte compagnie di cellulari lo adottassero, per poi personalizzarlo.
In un continente dove la spesa per i cellulari è in aumento ma dove si deve tenere il costo basso (questo implica anche le licenze per l’utilizzo di OS) la scelta di Android-Google è stata vincente. Di fatto la maggioranza degli smartphone operanti in Africa funzionano grazie ad un sistema operativo occidentale.
La strategia di “donare” software, rendendolo open source, può sembrare solo di Google ma anche Facebook non fa differenza. Bene inteso la piattaforma è gratuita (come in tutto il resto del mondo) ma Facebook sta impegnandosi molto per aiutare gli africani ad essere più digitali.
Seconda Fase: conferma annessione territoriale
Nel 2016 Facebook ha lanciato un’ operazione di mappatura della densità della popolazione africana tramite differenti algoritmi proprietari. Un’azione lodevole che, tuttavia, nasconde, con poca fatica, un obbiettivo commerciale: connettere i non connessi (potenziali utilizzatori e clienti di Facebook e dei suoi inserzionisti pubblicitari). La scelta di Facebook ignora anche un altro aspetto, diciamo trascurato nello storytelling buonista del social network: che i dati degli africani siano li, disponibili per essere acquisiti, senza chiedere il permesso.
L’esempio di Facebook è solo il più famoso. Come spiega anche Danielle Coleman nel 2018 “mascherati da azioni di altruismo, magari tramite fondazioni, le grandi Bigtech usano il loro potere per accedere ai dati vergini del continente. Le leggi sulla protezione dei dati personali sono scarse e mal coordinate tra i singoli stati africani. Le stesse leggi offrono molte backdoor (scappatoie) legali per poterle aggirare. Si potrebbe pensare che delle migliori leggi per la protezione dei dati possano aiutare. Una analisi del Kenya’s 2018 data protection bill, dimostra come le Bigtech possano trovare dei passaggi tra le larghe maglie di queste ed altre leggi simili.”
Terza Fase. Istituzionalizzazione presso gli indigeni.
Un potere coloniale deve essere percepito come positivo e riconoscibile come la fonte del diritto e, per estensione, dell’ordine costituito a cui fare riferimento. In questo modo una piccola nazione extra comunitaria (il Regno Unito) riuscì a sottomettere l’India. Nel mondo digitale non cambia nulla. L’operazione per “istituzionalizzarsi” della tecnologia passa per operazioni di Csr e una serie di attività di supporto dati offerte, spesso gratuitamente, ai governi delle nazioni. Qui, tuttavia, cominciano a manifestarsi dei seri rischi. Rischi che, per semplicità, possiamo dividere in due sotto gruppi: rischi derivati da errori non voluti, e rischi derivati da effetti collaterali voluti dalle aziende.
Rischi non voluti.
Abbiamo detto che un algoritmo non ha colore, pelle, razza, religione. Un algoritmo (nel mondo delle pr lo si chiama IA, per semplificare) esegue una serie di comandi impostati da uno o più programmatori.
La programmazione da parte di esseri umani può avere delle Bias cognitive involontarie. Il concetto, una volta innestato in un algoritmo, appare complicato ma alla base è molto semplice. Se io programmatore bianco e caucasico (magari pure uomo) definisco che un individuo americano, per ottenere un credito a breve termine, debba almeno avere una storia bancaria (quindi un conto in banca) definirò coloro che non hanno questo parametro come non adatti a ricevere un prestito.
Se lo stesso algoritmo viene poi esportato in Africa dove la grande maggioranza non ha un conto in banca si comprende il grave rischio. Ovviamente errori così banali sono difficili che abbiano luogo, ma ve ne sono altri che invece sono già storia. Gli algoritmi che identificano i cittadini di origine africana come “gorilla” non sono un evento di secoli fa: risale al 2015. Questo errore non era certo voluto ma dobbiamo considerare la demografia di molte BIGtech: la maggioranza dei programmatori algoritmi/IA sono uomini. Per lo più caucasici, latini e indiani. Ben pochi africani. L’effetto scalare che uno o più algoritmi possono innestare in un’economia di piattaforme in Africa è, potenzialmente, devastante.
Rischi derivati da effetti collaterali di scelte aziendali.
Nel 2020 Gebru viene licenziata da Google. L’accusa è di aver pubblicato un paper che non è ai livelli degli standard qualitativi del gruppo. Il problema evidenziato da Gebru (uno dei maggiori esperti di IA mondiali, con un curriculum da far invidia a Kurweil) è che Google, per risparmiare la bolletta elettrica, rischiava di creare, involontariamente, algoritmi discriminanti.
Il concetto è piuttosto complesso e si suggerisce la lettura del paper in questione.
Il rischio spiegato da Gebru può essere riassunto in questo modo: se io devo addestrare un algoritmo devo “dargli da mangiare” molti dati. Dati, per esempio, sul modo di parlare comune in una regione, comportamenti etc.. Tuttavia questo lavoro richiede una elevata mole di elettricità per le macchine (server) che gestiscono l’intero processo. Se do in pasto all’algoritmo una quantità minore di dati (a rischio che l’algoritmo cresca “ignorante”) risparmierò energia e quindi soldi.
Il concetto spiegato da Gebru è stato poco apprezzato e, a quanto spiegano differenti media, il colosso dei motori di ricerca ha preferito allontanare la ricercatrice.
Resta però la domanda: se io creo un algoritmo “risparmiando” sulla sua educazione, quando questo algoritmo viene dispiegato in un ambiente dove cultura, modi di parlare, abitudini di spesa sono differenti dal suo “ambiente originale (si pensi gli Stati Uniti)” siamo sicuri che tale algoritmo funzionera’ correttamente?
Lo scenario descritto non è frutto di speculazioni sociali o fanta-sociali. Sta accadendo ormai da diversi anni e la necessità delle big-tech (occidentali prima ma le cinesi sono poco dietro) rischia di avere un effetto di neocolonialismo, le cui ricadute finali sulla popolazione, la crescita economica del continente africano e la sua evoluzione culturale, saranno fortemente influenzati. Se consideriamo che, in termini demografici, entro il 2100 l’Africa sarà l’ultima area del mondo a raggiungere la parità demografica, e la crescita di domande di beni e servizi in questo continente è prevista in crescita nei prossimi decenni, si comprende cosa vi sia in ballo e perché il colonialismo digitale è molto più rilevante, ma meno conosciuto, rispetto al “vecchio colonialismo”.
Vuoi parlarne con me?
Mi trovi su Linkedin e la mia newsletter è qui (gratis)
Enrico Verga