Concordato preventivo biennale, perché non ha funzionato

Gli autonomi non sono evasori, ecco i numeri

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grande fratello fisco

Le partite Iva hanno voltato le spalle al Concordato preventivo biennale proposto dal governo: stando alle stime, avrebbero aderito al patto con il fisco solo poco più di 500mila realtà. Più o meno l’11% del totale considerando una platea potenziale di 4,5 milioni di lavoratori autonomi e di imprese potenzialmente interessate (di cui 1,8 milioni di forfettari e 2,7 milioni di operatori sottoposti agli Isa).

Di conseguenza anche l‘incasso per l’Erario si è rivelato inferiore rispetto ai 2 miliardi preventivati dalla maggioranza per dare man forte a una manovra che penalizza la classe media e chi possiede una seconda casa. L’idea era quella di usare i proventi del concordato per ridurre gli scaglioni Irpef.

Si pensa che il concordato possa aver fruttato 1,3 miliardi. Per una media di 2.600 euro ad autonomo. Commercialisti ed esperti contabili avevano più volte chiesto al Tesoro una proroga per spiegare la misura ai contribuenti indecisi. Questo pressing è caduto nel vuoto, tra i banchi della maggioranza si sta perà studiando una sokuzione per aprire un’altra finestra fino al 10 dicembre.

Dovrebbe trattarsi non più del concordato preventivo, ma di un’altra misura comunque sempre destinata a firmare un patto con il fisco. Per cercare di non ripetere l’insuccesso vale però la pena soffermarsi sui motivi della scarsa adesione alla proposta del governo.

Secondo la Cgia di Mestre, che difende gli interessi degli artigiani, la ragione è presto detta: i dati sull’evasione elaborati dal Ministero dell’Economia non sarebbero “attendibili”. In altre parole l’evasione tra gli autonomi sarebbe molto più bassa di quanto pensano i tecnici del Tesoro. Anche perchè tra lettere di compliance, accertamenti e verifiche, nel 2023 sono state controllate 3,7 milioni di attività imprenditoriali, pari al 65% circa del totale.

Uno stillicidio. Senza considerare che i controlli in materia di lavoro tendono a verificare anche la regolarità fiscale dell’azienda sottoposta all’attività ispettiva. Per ottenere la cosiddetta “patente a crediti”, per esempio, molte realtà edili hanno dovuto dimostrare di possedere il Documento unico di regolarità fiscale. A cui si somma ancora il lavoro di realtà quali i Nas dei Carabinieri o della polizia locale.

Malgrado il Tesoro stimi in 82,4 miliardi di euro il tax gap delle entrate tributarie e contributive presenti in Italia, secondo la Cgia di Mestre è quindi senza fondamento dipingere gli autonomi come un popolo di evasori.

Questo perché se l’imposta più evasa fosse l’Irpef in capo ai lavoratori autonomi, per un ammanco di 29,5 miliardi e un gap stimato del 70%, allora queste stesse realtà avrebbero dovuto dichiarare nonb 33mila euro di media come è avvenuto ma 74mila, cioè il 120% in più.

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Fatte le opportune eccezioni per le professioni più pagate, una somma non facile da raggiungere per chi lavora da solo, visto anche il tempo assorbito dalle incombenze burocratiche. Il Concordato preventivo biennale appena concluso poggiava invece proprio su un’idea di diffusa negligenza tra gli autonomi.

Il contribuente, nell’ottica degli estensori delle norma, avrebbe insomma essere facilmente ben disposto a versare un po’ di più pur di limitare la rottura dei controlli a tappeto. L’idea era quella del fisco amico e del merito di affidabilità di ciascuno.

Nessuno però si era forse soffermato a riflettere su a quale tipologia di lavoratore autonomo convenisse davvero aderire. Perchè tutto dipende da quanto costa la pace e da quale è il rischio di segnare un autogol, aitando chi davvero può fare il nero. Vedremo come sarà costruita la prossima misura con l’erario.

 

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