Economia

Dopo il Covid l’Ue si prepara a nuove sfide – politiche e sociali

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Si va diffondendo, in questa fase di riapertura, una retorica che trovo pericolosamente illusoria su quella dovrebbe essere la rinascita economica dei prossimi anni. Il desiderio di veder germogliare il rinnovamento è pienamente comprensibile; del resto, la gran parte dei cittadini, anche avendo piena coscienza delle difficoltà che ci aspettano, altro non potrebbe fare se non rimboccarsi le maniche e ricominciare a lavorare.

Ma a una cerchia più ristretta di colleghi, decisori politici e di attenti osservatori non dovrebbe sfuggire il fatto che, arginate le ferite del coronavirus, si potrebbero riaprire tensioni sociali e politiche che si preannunciano assai aspre. Ne riassumerò, di seguito, le ragioni.

Ben prima che la pandemia colpisse l’economia globale, i suoi squilibri erano già piuttosto evidenti agli occhi delle istituzioni internazionali. Appena lo scorso dicembre il Fondo monetario aveva segnalato come il debito societario globale fosse tornato agli stessi livelli del 2008, quando di lì a poco sarebbe deflagrata la crisi finanziaria. Ciò, si diceva, avrebbe implicato enormi rischi di default nel settore privato nel caso si fosse verificata una nuova recessione globale. Inoltre, “diversamente dalla crisi finanziaria, i rischi [oggi] non si concentrano esclusivamente nel settore privato ma anche nel settore pubblico, rivelando in parte l’eredità irrisolta della crisi finanziaria globale”, scrivevano la vice-responsabile del dipartimento Affari fiscali del Fmi, Marialuz Moreno Badia e l’economista senior Paolo Dudine. “E’ quindi importante ridurre tali vulnerabilità”, ovvero i crescenti debiti societari e pubblici, “prima del prossimo shock avverso”, ammoniva il Fmi lo scorso dicembre. Il tempo per farlo, com’è evidente, non l’abbiamo avuto; ma i punti deboli che venivano descritti meno di sei mesi fa continuano ad esercitare un’influenza potente su quanto stiamo osservando.

 

Di fronte alla nuova crisi, le contromisure immediate, ancora una volta, sono state l’allentamento monetario e, ancor più che in passato, poderosi interventi di spesa pubblica in disavanzo. Nella migliore delle ipotesi, pertanto, il rischio di una devastante catena di default nel settore privato verrà scongiurato a spese degli stati; con la differenza che, questa volta, gli esborsi saranno più ampi e andranno ad appesantire debiti già più gravosi rispetto al 2008.

Le conseguenze di questi interventi, per quanto necessari, non possono essere del tutto rassicuranti. Dovrebbe essere viva ancora nella memoria la conflittualità sociale e politica lasciata in eredità dalla crisi finanziaria. L’ascesa dei movimenti euroscettici, ad esempio, non può che essere considerata una figlia delle speranze deluse dall’Europa, nel momento in cui venne stabilito l’obiettivo di ridurre i deficit e di condurre i debiti pubblici sullo “stretto sentiero” della riduzione. I sacrifici che si accompagnano sempre a questo genere di aggiustamento hanno accresciuto il senso di incertezza, precarietà e instabilità con cui ampie fasce della popolazione europea si sono ormai abituate a convivere.

Niente mi distoglie dal pensare che un debito pubblico che si farà di gran lunga più elevato possa coabitare con le speranze di chi aspetta una nuova primavera economica. Vale la pena ricordare che nel 2007, alla vigilia della Grande recessione, il rapporto debito/Pil italiano era intorno al 103%, mentre nel 2019 esso era già di 30 punti più elevato. Nell’ultimo decennio abbiamo vissuto in un limbo al termine del quale l’Italia non è riuscita nemmeno a recuperare i livelli di reddito precedenti alla crisi finanziaria. Se finora i vincoli di bilancio sono sembrati severi per un Paese che già doveva destinare un’ampia porzione del suo reddito nazionale al pagamento degli interessi sul debito, tali limiti non potranno che farsi più duri nei prossimi anni. Oltre all’Italia anche la Francia e la Spagna si troveranno, seppure in forma un po’ meno grave, di fronte al medesimo problema.

Ritengo che siano state queste considerazioni ad aver ispirato, alcuni giorni fa, la presa di posizione della presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, nell’affermare che il Patto di stabilità, che regola il coordinamento delle politiche fiscali europee, andrebbe “rivisto prima che torni in vigore”. La verità che non si può affermare ad alta voce è che alcuni principi su cui si fonda l’Unione monetaria rischiano, ancora una volta, di essere una minaccia per la tenuta del sistema. Alcune regole sono già state superate, nella sostanza, dai fatti. E’ vero, carte alla mano, che non è compito della Bce tenere sotto controllo gli spread fra i debiti nazionali – ma sarà costretta a farlo ancora per lungo tempo, dato l’aumento dei rischi di default sovrano. E’ vero che la politica monetaria di Francoforte dovrebbe essere quanto più neutrale possibile nei suoi effetti non strettamente collegati alla stabilità dei prezzi – ma la banca centrale sarà costretta a intervenire attraverso politiche non convenzionali come il Qe ancora per anni. E’ vero, infine, che nel percorso delineato a Maastricht i debiti pubblici degli stati membri sarebbero dovuti convergere al 60% sul Pil per preparare il terreno ad un’Unione federale che non ponga i debiti pregressi sulle spalle di chi non ha contribuito ad accumularli – nei fatti, però, questo traguardo non è mai stato più irraggiungibile. Per questo, il sogno europeo potrebbe comportare il pagamento di un conto salato per il Nord Europa. Se così fosse, ciò non potrebbe che rafforzare il populismo nelle regioni più ricche del Vecchio Continente.

 

La debolezza dei Paesi periferici, che sarà indubbiamente aggravata dalla crisi del Covid-19, rischia di aprire una frattura politica fra Nord e Sud Europa perché sarà presto evidente che lo status quo mantenuto finora non sarà più sostenibile. Se ai Paesi europei più vulnerabili sarà nuovamente inflitta la logica di una correzione asimmetrica, fatta di austerità fiscale e tagli allo stato sociale, non ci sarà nulla che potrà nascondere i limiti di un’organizzazione politica pericolosamente incompiuta. Dopo questa crisi, le alternative politiche che si aprono mi sembrano comprese fra i due seguenti estremi. Un graduale, ma inesorabile ritorno ad una dottrina di bilancio cauta o restrittiva che lascerà poche risorse a Paesi come il nostro per investire sul futuro; oppure, la possibilità che, a quanto sopra descritto, venga affiancato un aggiornamento dei trattati che preveda qualche forma di trasferimento di risorse dai Paesi più ricchi.

Nel primo caso rischia di di insorgere l’opinione pubblica nel Sud Europa, nel secondo quella al Nord.

In molti sembrano credere che un accordo sulla revisione dei trattati potrà essere raggiunto e che il Recovery Fund costituisca il primo passo di una nuova Europa veramente solidale. L’esperienza del recente passato mi spinge a un maggiore realismo. I compromessi raggiunti dagli stati membri, dovendo strappare l’assenso di ogni singolo Paese, non sono mai riusciti a volare alto. Nella crisi del 2011 la richiesta di solidarietà da parte dei Paesi mediterranei ha prodotto il Meccanismo europeo di stabilità, con tutti i suoi evidenti limiti. I più recenti Sure, Mes “light” o la Resilience Facility, per quanto siano sviluppi positivi, restano provvedimenti temporanei che, al più, eviteranno che le disparità fra gli stati membri si allarghino ulteriormente. Difficilmente questi provvedimenti potranno essere sufficienti, da soli, a portare le economie europee sulla strada della convergenza, facilitando il percorso di integrazione politica. Non andrebbe dimenticato che le condizioni perché essa si realizzi si sono fatte, dopo la pandemia, oggettivamente più difficili.

Per questo, non si può ancora affermare che l’emergenza coronavirus abbia aperto le porte all’Europa della solidarietà, perlomeno non nella misura in cui essa potrebbe rivelarsi davvero risolutiva. Sono certo, al contrario, che l’ulteriore debito con cui dovranno fare i conti l’Italia e gran parte degli stati europei restringerà tutti i limiti, inasprirà tutte le tensioni, imporrà tutti i sacrifici e aggraverà tutte le iniquità che abbiamo imparato a conoscere dal 2008 a oggi.
Solo una profonda revisione delle logiche che hanno ispirato gli anni successivi alla crisi finanziaria potrà regalare una vera speranza di rinascita.