Draghi sfida i partiti, in gioco non il Colle ma la Repubblica

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Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione e nello stato d’eccezione, secondo la famosa formula di Carl Schmitt. Mario Draghi n’è ben consapevole. Il nostro sistema democratico è dentro uno stato d’eccezione istituzionale, sanitario, economico e politico. Stato d’eccezione prodotto dalla nascita nel febbraio scorso di un governo di unità nazionale sotto l’egida del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ora prossimo alla scadenza del suo mandato settennale. 

Volendo applicare la teoria del filosofo tedesco l’Italia è dentro un tornante decisivo della storia repubblicana. Due realtà costituzionali, i partiti da un lato e il presidente del consiglio dei ministri dall’altro, devono farsi carico di rivendicare solo per sé la successione di quel potere. Poiché il sovrano che ha prodotto questo stato d’eccezione, Sergio Mattarella, fra pochi giorni non sarà più tale e non intende in alcun modo proseguire con un secondo mandato il suo esercizio. 

Mario Draghi dando di fatto la sua disponibilità a farsi eleggere come presidente della Repubblica, da “nonno a servizio delle istituzioni”, richiedendo però implicitamente la più ampia maggioranza possibile delle forze politiche presenti in Parlamento, ha posto ai partiti una sfida decisiva. Sono essi in grado o meno e in quale modo di riprendere su di loro il peso della sovranità e della gestione autonoma del sistema democratico e parlamentare italiano dal quale hanno abdicato in favore di una guida esterna?

Scegliere un presidente della Repubblica altro dall’attuale presidente del consiglio dei ministri sarebbe il modo per i partiti di chiudere la parentesi dello stato di eccezione e tornare unici custodi del potere democratico. Sbarrando così ogni ipotesi di riforma materiale della Costituzione in ottica semipresidenziale.

Prendere questa scelta però significherebbe anche terminare automaticamente l’esperienza del governo di unità nazionale e far precipitare il sistema istituzionale verso il voto anticipato, nonostante il riemergere delle pandemia dovuta alla variante Omicron. Un voto che si svolgerebbe con l’attuale legge elettorale, il Rosatellum, con una composizione parlamentare ridotta a 600 unità tra deputati e senatori e senza avere il tempo di approvare le norme di riequilibrio del sistema democratico necessarie a seguito della riduzione degli eletti.

Mario Draghi non solo ha dato la disponibilità a farsi eleggere al Colle, ma ha anche indicato il modello al quale farebbe riferimento per svolgere il suo nuovo compito di futuro Capo dello Stato: quello dell’attuale presidente Mattarella. Attribuendo alla figura del presidente della Repubblica non la marginale funzione di arbitro che osserva e sanziona il gioco più o meno corretto dei partiti, ma di garante della Costituzione repubblicana: democratica, antifascista, pacifista, europeista. Un ruolo dunque non marginale, ma attivo, propositivo, capace di una dialettica basata sulla difesa di valori costituzionali che non tutti i partiti oggi presenti in Parlamento sembrano condividere. 

L’elezione di Draghi al Colle gli garantirebbe un ruolo di egemonia politica sul sistema istituzionale. Innanzitutto sarebbe confermato lo stato d’eccezione dando impulso alla nascita del prossimo esecutivo, fotocopia dell’attuale, sempre sotto la formula dell’unità nazionale. Di diverso ci sarebbe solo il nome del presidente del consiglio dei ministri, però sempre estraneo ai partiti e scelto direttamente da Draghi fra uno degli attuali cinque ministri tecnici del suo governo: Cartabia, Franco, Colao, Giovannini, Cingolani (in ordine di probabilità alla successione).  

Uno scenario che prefigurerebbe in vigenza di un sistema sulla carta ancora parlamentare, la situazione istituzionale più vicina al semipresidenzialismo alla francese, sistema nel quale è il presidente della Repubblica che sceglie in autonomia il primo ministro. Se la formula dell’unità nazionale ha segnato la nascita del Governo Draghi, un eventuale governo nato in questo modo sarebbe chiaramente un “governo del Presidente” in tutto e per tutto.

La legittimità politica non deriverebbe dalla forza dei partiti ottenuta dal voto degli elettori che in parlamento gli accorderebbero la fiducia, ma solo dalla “potenza” del futuro inquilino del Quirinale. Un governo che anche agli occhi delle cancellerie internazionali avrebbe come unico dominus Draghi, né il futuro presidente del Consiglio dei ministri, né tantomeno i leader di partito. 

Sotto una presidenza della Repubblica così “potente” l’anno che ci porterebbe al voto nel 2023 potrebbe essere utilizzato anche per correggere il sistema elettorale, magari con una legge proporzionale che depotenzi le aspirazioni governative delle forze sovraniste e di fatto prefiguri le condizioni per avere nella prossima legislatura un governo sorretto dal sostegno di forze politiche che si rispecchino nei valori politici del presidente della Repubblica. Qualcuno potrebbe spingersi anche a voler fotografare costituzionalmente la novità politica accaduta e avviare un processo di riforma della seconda parte della Costituzione per introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica. 

La svolta “presidenziale” più volte è stata tentata dal 1948 in Italia. Gli esiti sono stati sempre fallimentari. Il sogno del Presidente Giovanni Gronchi si spezzò con il disastro sociale compiuto dal “suo” governo Tambroni nel 1960. Il tentativo del Presidente Antonio Segni di impaurire il sistema dei partiti con un governo militare nel 1964 svanì per la capacità di resistenza di Aldo Moro e Giuseppe Saragat.

L’invito alla riforma del sistema costituzionale italiano sostenuta nel 1990 dal Presidente Francesco Cossiga dopo la caduta del muro di Berlino restò inascoltato dal sistema dei partiti della prima Repubblica, incapaci di vedere le conseguenze di quell’evento sul proprio futuro. Le riforme costituzionali di Berlusconi nel 2006 e di Renzi 2016 si sono infrante contro il muro del conservatorismo dell’elettorato italiano.

La sfida che Mario Draghi ha lanciato al sistema dei partiti, incapace di governare lo stato d’eccezione, è quella di formalizzare e costituzionalizzare con la sua elezione al Quirinale una supplenza necessaria a riformare di fatto, se non formalmente, la Costituzione repubblicana e dare, come nell’ultimo anno è accaduto, esecutivi davvero governanti al Paese.

Per una volta una sfida aperta, chiara, trasparente. L’elezione del futuro presidente della Repubblica riguarda dunque ii futuro del Paese che saremo. Che sia il parlamento meno adatto alla grandezza del compito è il paradosso, accettabile, della democrazia. 

Antonello Barone, 26 dicembre 2021

 

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