È un peccato che si stia parlando di inflazione al singolare, poiché dalla narrativa mediatica sembra che il fenomeno sia uno, e che le sue cause e i suoi effetti siano i medesimi a prescindere dalla condizione dell’economia del paese in questione. Per esempio, nonostante sia vero che la catena di fornitura globale è generalmente in uno stato di sovraccarico, gli effetti sulla disponibilità di beni tangibili non è altrettanto marcato in Europa quanto lo è negli Stati Uniti.
Il termine inflazione indica il duraturo aumento dei prezzi generali in un’economia. Ciononostante, questa è una funzione di una serie di variabili distinte, tra cui la relazione tra la politica monetaria di una banca centrale, il sottostante del mercato del lavoro e la domanda, le condizioni del lato dell’offerta, i prezzi dell’energia e delle altre materie prime etc. Solamente definendo chiaramente le cause che hanno maggiore incidenza sull’aumento dei prezzi in una specifica economia si può stimare quanto i prezzi aumenteranno, i prezzi di quali specifici beni e servizi aumenteranno e per quanto la pressione durerà.
Le successioni di eventi che hanno portato alle pressioni inflazionistiche che osserviamo oggi sono complesse, ma non sono tutto. Anche le caratteristiche di un’economia, dei suoi import ed export e più generalmente del suo posizionamento relativamente ad altre economie è qui importante. In determinate circostanze può, per esempio, essere strategico per una banca centrale lasciare la propria inflazione crescere entro certi parametri se una svalutazione della propria moneta viene determinata come vantaggiosa.
Iniziando con una visione panoramica, il seguente grafico rappresenta le pressioni inflazionistiche annualizzate osservabili nelle economie dei paesi del G7 e dell’area Euro. Già in termini di tasso di inflazione totale (i puntini), si notano marcate differenze, l’Italia ed il suo ormai notorio attuale tasso del 3% rappresentano per esempio una pressione complessiva più leggera rispetto a quelle sostenute dalla Germania (4,5%) e dagli Stati Uniti (6,2%).
Balza inoltre subito agli occhi l’incremento del prezzo dell’energia (le crocette) in Italia, pari al 25,2%. Nonostante le cause di questo incremento siano state discusse a lungo nelle ultime settimane, la transizione energetica, il basso stoccaggio di gas naturale etc, non è forse stata sottolineata la maggiore esposizione dell’Italia all’import di gas naturale russo rispetto a quella dei nostri amici europei.
Il prezzo del gas naturale in Europa oggi equivale a oltre il 670% di quello di un anno fa. Questo pesa in maniera particolare sul nostro paese poiché il gas naturale rappresenta per il nostro stivale una grande fetta del mix energetico, superiore al 40%, più di un terzo del quale viene dalla Russia.
Nonostante questo forte incremento del prezzo del gas e della sua grande incidenza sull’economia del nostro paese, e nonostante la maggiore inflazione osservabile nelle economie dei nostri partner commerciali (anche questa è una pressione inflazionistica per il nostro paese), il nostro tasso di inflazione rimane moderatamente sopra il target del 2%. Anche gli aumenti del prezzo del cibo sono molto limitati. Questi sono senza ombra di dubbio segnali incoraggianti.
C’è anche un’altra variabile da tenere in considerazione: il mercato del lavoro. In Italia, come in altri paesi europei, il tasso di disoccupazione (oltre il 9%) è significativamente maggiore a quello degli Stati Uniti (4,6%). Questo è di vitale importanza in quanto la scarsità di lavoratori pone questi ultimi in una posizione di maggiore forza nelle trattative stipendiali, portando ad un ulteriore aumento dei prezzi. Questo si sta palesando negli Stati Uniti, dove decine di migliaia di lavoratori a basso reddito si sono licenziati, portando diverse aziende, come quelle nel settore fast food, a dover offrire loro stipendi maggiori (alzando quindi i loro costi).
L’incremento del prezzo di beni di prima necessità nell’economia americana, come la carne, porta anche i lavoratori ad aspettarsi aumenti di prezzo nel futuro, e dunque a negoziare un salario maggiore, dando origine a ciò che è noto come spirale salari-prezzi, un circolo vizioso che porta all’aumento di entrambi. Bisogna qui sottolineare che questa nozione, nota a qualunque economista, sta venendo sfidata dalla FED, per ragioni delineate da uno studio di Jeremy B. Rudd, economista senior nella divisione di Ricerca e Statistica della banca centrale americana, che afferma non ci sia evidenza empirica dell’effetto dell’aspettativa di inflazione nell’inflazione stessa.
Nonostante questo, e nonostante le dichiarazioni degli ufficiali della FED, che continuano a ritenere l’inflazione transitoria, la banca centrale americana sta riducendo i propri acquisti di 10 miliardi di dollari in titoli di stato e di 5 miliardi di dollari in mortgage-backed securities su base mensile. Anche la Bank of England sta procedendo con una contrazione della propria politica monetaria.
La Banca Centrale Europea, invece, tergiversa, aspetta, è più cauta. Perché? Possibilmente perché se lo può permettere. È infatti più facile argomentare che l’inflazione osservabile nell’area Euro sia transitoria, che i prezzi dell’energia non continueranno ad aumentare a questo passo, che l’economia non sia ancora al naturale livello di output e disoccupazione. Inoltre, i flussi di moneta immessi dalla BCE sono stati immessi attraverso canali diversi, più controllabili, rispetto a quelli immessi dalla FED, ed il mercato equity europeo non ha corso tanto quanto quello americano (forse esagerato ed insostenibile).
In conclusione, l’inflazione osservabile in Italia è diversa rispetto a quella osservabile in altre economie. È più moderata, e più probabilmente transitoria. Liquidità e bassi tassi di interesse rimangono necessari per riportare il nostro paese ad essere competitivo nel mondo, per modernizzare la nostra produzione manifatturiera ed investire nell’innovazione.
L’inflazione è un fenomeno regressivo, e bisognerà dunque prestare attenzione alle disuguaglianze economiche già aggravate dalla pandemia, nonché riguardarsi dagli altri pericoli che presenta. Allo stesso tempo, un ritardo nell’aumento dei tassi da parte della BCE rispetto alla FED, BOE ed altre banche centrali potrebbe essere vantaggioso per la nostra economia, continuando ad incrementare la nostra produttività attraverso investimenti, rianimando il nostro mercato equity, sfruttando la svalutazione dell’euro ed una maggiore credibilità internazionale grazie ad una corrosione in termini reali del debito pubblico.