Il capitalismo può salvare l’ambiente

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Molti giudizi sommari (“il solito bla, bla, bla”) e poche analisi dettagliate hanno accompagnato i lavori della Cop26, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite che è svolta nelle ultime due settimane a Glasgow.

Al di là dei bilanci finali e dei giudizi di merito, che stanno occupando giustamente grandi spazi su tutti i mezzi di comunicazione, c’è un particolare aspetto, nell’ottica delle teorie economiche, che merita di essere sottolineato: la realistica prospettiva che scelte concrete e costruttive per contenere gli squilibri climatici possono derivare dalla convergente volontà dei poteri pubblici da una parte e dei processi di libero mercato dall’altra. Una volontà che peraltro ha alla base la crescente sensibilità ambientale che spinge a scelte coerenti sia dal profilo politico, sia nella dimensione finanziaria.

C’è un importante passaggio nell’intervento del premier italiano, Mario Draghi, all’incontro di Glasgow. “I soldi ci sono – ha detto Draghi – e bisogna spenderli al meglio per pianeta.”

I soldi ci sono. Sono quelli dei bilanci statali, ma anche quelli del risparmio privato, sono quelli delle banche centrali, ma anche delle Banche multilaterali di sviluppo (la più importante è la Banca asiatica a cui partecipano anche alcuni paesi europei) che hanno un compito particolarmente importante per rendere sempre più operativo il partenariato pubblico-privato. Dieci tra queste banche hanno firmato alla Cop26 un accordo per finanziare nei Paesi del Terzo Mondo progetti di sostenibilità per la riduzione dell’impatto climatico.

Anche le banche centrali, senza uscire dalle proprie competenze, devono comunque sentirsi responsabili anche perché sono direttamente o indirettamente protagoniste nei mercati finanziari e negli investimenti azionari.

Un ruolo importante è poi quello del risparmio privato che sembra poter andare in questa direzione. È sempre più diffusa e seguita la valutazione ESG (Enviromental, Social, Governance) che spinge gli investimenti privati verso le società che hanno la maggiore sensibilità ambientale e che praticano concrete politiche di sostenibilità. Anche perché sono in gran parte proprio queste imprese quelle che stanno dimostrando una maggiore potenzialità di crescita e quindi anche più ampi margini di guadagno.

Certo, non siamo di fronte ad una rivoluzione e siamo lontani dai desideri di chi pensa che sia necessario gettare alle ortiche quel sistema di libero mercato considerato come il primo responsabile dei cambiamenti climatici. Ma proprio il sistema capitalistico ha ora tre carte da giocare: in primo piano, come abbiamo detto, i soldi, che sono l’elemento fondamentale per gli investimenti. In secondo luogo, la capacità di spingere uno sviluppo tecnologico in grado di aiutare il risanamento ambientale, per esempio con lo sviluppo delle energie rinnovabili. E infine un sostegno che nasce dal basso, dalle scelte responsabili e partecipate, scelte anche finanziarie dei cittadini.

In pratica realismo e concretezza al posto delle ideologie. Quello che è stato chiamato ambientalismo dei risultati: usare un capitalismo ben temperato per migliorare il clima, anziché tentare di usare il clima per abbattere il capitalismo.

Tra i tanti bla, bla, bla che continuiamo a registrare possiamo infatti mettere anche le proposte di chi invoca un radicale nuovo modello di sviluppo magari sull’onda della decrescita felice. Chiedere di cambiare tutto per non cambiare niente è peraltro una costante della politica fatta di slogan e di luoghi comuni.

Gianfranco Fabi, 15/11/2021

 

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