Economia

Il caso dell’Islanda: dal disastro ambientale alla green economy

La storia, a partire dai vichinghi, di uno sviluppo sostenibile che ha portato l’isola al benessere economico

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La storia è ricca di casi in cui l’uomo ha rotto l’equilibrio tra sviluppo e risorse naturali a disposizione. Un atteggiamento che ha portato al collasso intere civiltà antiche. Dopo aver parlato qui, in alcuni articoli precedenti, della storia dell’Isola di Pasqua e di quella della società dei Maya, due esempi drammatici per comprendere la necessità di una crescita economica sostenibile, analizzeremo ora una “case history” dall’esito positivo: quella dell’Islanda.

La storia di quest’isola è davvero straordinaria. L’Islanda per secoli è stata un luogo povero, a rischio di collasso ambientale a causa dello sfruttamento umano. Negli ultimi decenni il Paese ha saputo risollevarsi, diventando una delle nazioni più ricche grazie anche all’avvio di un’intelligente politica di sviluppo sostenibile.

 

La colonizzazione vichinga e la fragilità ambientale dell’Islanda

I vichinghi, i “predoni” (questa è la traduzione del termine in norreno, la loro lingua)  provenienti dalla Scandinavia e dalla Danimarca, approdarono in Islanda intorno all’anno 870, dopo aver già colonizzato le isole Shetland, Orcadi e Faer Øer situate a nord della Gran Bretagna.

I colonizzatori, al loro arrivo, trovarono un ambiente vergine e in apparenza molto ospitale perché ricco di risorse naturali: sorgenti d’acqua calda, specie di piante e di animali già noti, abbondanti risorse ittiche (in primis il merluzzo, voce importante dell’export), pascoli molto rigogliosi e, nonostante la latitudine, un clima mite lungo le coste, grazie alla corrente del Golfo.

I vichinghi, oltre a essere un popolo di guerrieri e di commercianti, erano soprattutto dediti all’agricoltura e alla pastorizia. Iniziarono così a sfruttare tutte le risorse naturali che trovarono a disposizione, cercando di riprodurre uno stile di vita e un sistema economico che caratterizzavano la propria madrepatria.

Come ricorda il premio Pulitzer Jared Diamond nel libro “Collasso” (Einaudi), i vichinghi non capirono la fragilità dell’ambiente islandese, solo in apparenza simile a quello della propria madrepatria.

In primis la sua posizione più a Nord implicava un clima più freddo e una stagione vegetativa più breve: due fattori che non facilitavano l’agricoltura, tanto che nel XIII secolo, quando il clima diventò ancora più rigido, divenne impossibile coltivare qualsiasi cosa. Inoltre erano frequenti le eruzioni vulcaniche: le ceneri riversate su grandi estensioni di territorio avvelenavano il foraggio, indispensabile per gli animali da allevamento. Non furono rari, nella storia islandese, casi di carestia dovuti a questo fenomeno. Il terzo e ultimo fattore che trasse in inganno i vichinghi fu il suolo: in realtà più fragile di quello delle altre terre da loro conosciute, perché soggetto a una grande erosione a causa del vento, del freddo, della pioggia e dell’attività vulcanica.

 

Lo sfruttamento senza limiti delle risorse e il rischio del disastro ambientale

I vichinghi distrussero, in meno di un secolo, l’80% delle foreste dell’isola, un danno ancora visibile al giorno d’oggi. Senza rendersene conto, l’uomo stava dilapidando in pochi decenni un capitale di risorse naturali formatosi nel corso di migliaia di anni, come dei minatori che consumano il giacimento di una miniera fino al suo esaurimento.

Quando i vichinghi si accorsero della riduzione dei boschi, era già troppo tardi. Gli animali da pascolo e d’allevamento impedivano alle giovani piante di crescere per sostituire gli alberi tagliati. Inoltre, lo sfruttamento massivo dei pascoli montani, innescò due processi: quello delle frane poiché senza erba il suolo, ricco di ceneri vulcaniche, ritornava a essere esposto all’erosione e, il secondo ancora visibile oggi, quello della desertificazione di ampi territori interni.

L’Islanda divenne così il Paese europeo con i problemi ambientali più gravi. Una lezione che il popolo islandese avrebbe ricordato per sempre.

 

L’avvio di uno sviluppo economico sostenibile e il benessere attuale

Il rischio della catastrofe ambientale e del conseguente possibile collasso socio-economico  portò i vichinghi a cambiare le proprie pratiche socio-economiche. Smisero di sprecare legna, di allevare capre e maiali (dannosi per quel tipo di ambiente) e gli allevatori cercarono di adottare delle pratiche condivise per prevenire l’erosione del suolo. Era l’inizio di un accurato sviluppo economico sostenibile, guidato dalle decisioni  collettive e politiche.

Le decisioni sullo sfruttamento delle risorse naturali iniziarono così a caratterizzarsi per la flessibilità e l’efficienza. La lezione imparata dalla storia sulla fragilità del proprio ambiente ha condizionato profondamente il carattere del popolo islandese, noto per essere d’indole conservatrice.

Tra il 1397 e il 1944 l’Islanda è stata governata dalla Danimarca e spesso, nel corso dei secoli, ogni tentativo di apportare delle novità sull’isola da parte dei danesi, è stata osteggiata dalla popolazione locale. Consci dell’estrema fragilità dell’ambiente dell’isola e memori della lezione imparata dai propri antenati, gli islandesi non erano più disponibili a correre rischi eccessivi, e lo sono ancora tutt’oggi.

Un esempio di resilienza, adattamento e pragmatismo che ha portato l’Islanda al benessere economico. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2021 l’Islanda si piazzava ottava nel ranking mondiale del Pil pro capite. Un risultato raggiunto anche grazie all’autosufficienza energetica basata sulle fonti rinnovabili, in particolare geotermica e idroelettrica. Secondo i dati pubblicati dall’Ocse, nel 2021 il 90% del fabbisogno energetico è stato coperto dall’energia pulita. Un vero e proprio record mondiale.

La svolta è arrivata nel 1973 con la crisi petrolifera internazionale, che portò il prezzo del greggio a salire del 70%. Per correre ai ripari, venne varata una nuova politica per sfruttare le risorse geotermiche e costruire nuovi servizi di teleriscaldamento basati sul loro impiego: come risultato, l’impiego di petrolio per il riscaldamento è crollato dal 50% del 1973 al 5% del 1985. Grazie al teleriscaldamento geotermico al posto del petrolio, gli islandesi hanno ottenuto un risparmio medio annuo pari al 2,6% del Pil tra il 1950 e il 2016.

La rivoluzione green ha portato benefici anche ad altri settori economici: allevamento ed essiccazione del pesce, turismo, trattamenti naturali per disturbi della pelle, coltivazione di alghe e produzione di cosmetici eco-friendly.

 

Conclusioni

La storia dell’Islanda rappresenta un caso di grande successo di raggiungimento di un equilibrio tra l’ambiente e lo sfruttamento dell’uomo, tra risorse naturali ed economia. Un esempio positivo a cui ispirarsi, che bilancia altri casi storici finiti invece in modo drammatico, come quello delle civiltà dell’Isola di Pasqua e di quella dei Maya.


Alessandro Fuso, 12 febbraio 2022