Economia

Il caso Super League: il fallimento del capitale, incapace di governare l’indignazione

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Il capitale ha sempre avuto nei secoli, e con maggiore sofisticazione negli ultimi decenni, la forza di plasmare gli immaginari collettivi delle società nei quali si formano e si muovono i desideri dei singoli individui, che grazie all’omologazione si fanno bisogni di massa.
 

Per questo motivo stupisce come le dodici più ricche società di calcio europee, accompagnate dalla supervisione finanziaria di un colosso come JP Morgan abbiano miseramente fallito la realizzazione del loro progetto: la Super League di calcio europea.

Ognuno può restare della propria idea sulla validità economica, etica e di intrattenimento o meno dell’operazione. Quello che qui interessa valutare è la clamorosa assenza di una metodologia di costruzione di consenso preventivo che potesse agevolare la finalizzazione  e il successo del progetto.

 
I promotori hanno creduto che potesse bastare un atto di potenza e di volontà per determinare un cambiamento radicale di realtà. Ma la società occidentale contemporanea ormai non può essere trasformata se non attraverso un passaggio preventivo che produca un cambio di percezione collettivo sul tema in oggetto, qualunque esso sia.
 
E questo cambiamento sempre più spesso passa attraverso il sentimento principe che regna nei social media: l’indignazione. Basti osservare la storia recente del consenso politico italiano per comprendere come una sapiente preparazione e alimentazione dell’indignazione generalizzata contro lo status quo possa produrre un cambio di paradigma inaspettato dagli osservatori, ma atteso dai suoi ideatori.
 

Altro esempio è l’indignazione della maggioranza dei consumatori contro  le aziende che non mostrino un atteggiamento rispettoso sui temi ambientali. Non c’è Corporation e ora anche governi e forze politiche che non sappiano quale danno possa produrre una narrazione della propria identità valoriale che non sia impregnata dei principi della salvaguardia del pianeta e dell’attenzione al cambiamento climatico

Dunque senza indignazione non ci può essere cambiamento della realtà. Questo assioma della costruzione del consenso politico e commerciale del XXI secolo è sfuggito al presidenti dei club che avrebbero dovuto realizzare la Super League. E per la regola del contrappasso, non essendo stati capaci di creare il clima per sobillare un’indignazione potente dei diversi pubblici di riferimento del sistema calcio – tifosi, media, sponsor, broadcaster, governi e soggetti dell’indotto – sulla realtà antecedente, hanno subito l’indignazione compatta di tutti coloro che non erano stati preparati a cambiare il loro giudizio sulla realtà.

Convinti della sufficienza della forza della propria potenza economica e dell’egemonia comunicativa sui desideri dei propri tifosi i dodici club non hanno neanche ipotizzano che ci fosse la necessità di costruire almeno un’azione strategica per preparare il momento dell’annuncio della loro scelta. Non è stata ideata un’operazione advocacy nei confronti dei classi politiche degli Stati e della Commissione Europea per definire un perimetro di riferimento che comportasse una valutazione oggettiva dei benefici in ordine fiscale, di incremento di valore, di ricadute economiche sulla filiera sportiva che l’operazione avrebbe prodotto.

 

Parallelamente non è stata immaginata una strategia di comunicazione che potesse definire un bisogno nuovo nei confronti dei fruitori ultimi del progetto: i tifosi. Zero investimenti in advertising, nessuna costruzione di messaggi teasing nel tempo attraverso l’utilizzo di testimonial potenti, come le vecchie glorie delle squadre più amate d’Europa.

Un’operazione dal valore ipotizzato di quattro miliardi di euro affidato a un semplice comunicato stampa. La supremazia del capitale questa volta si è dovuta piegare alla superbia della spilorceria.

 
 
Antonello Barone