Economia

Il futuro del settore agroalimentare

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Il futuro del settore agroalimentare, visto da Alessandro Squeri; Presidente Nazionale Giovani di Federalimentare

Nel comparto agroalimentare italiano, sono in molti a credere che il settore, le persone che lo animano e le dinamiche di mercato ne usciranno diverse, migliori o peggiori non lo possiamo dire, sicuramente diverse in un mondo che non sarà più come prima. Certo è che ne emerge un ritorno alla tradizione a tavola, all’attenzione della scelta di cibo di qualità. Queste tendenze e il ritorno al made in italy, possono rappresentare un cambiamento positivo nel settore della filiera agroalimentare.

Il mercato del lavoro e la presenza dei giovani nel settore agroalimentare, può essere una leva importante per riportare vigore a quella, che nei fatti è da sempre un’eccellenza del nostro paese. Abbiamo sentito a questo proposito, Alessandro Squeri, 36 anni, nella sua doppia veste di Presidente Nazionale Giovani di Federalimentare al secondo mandato, e imprenditore del settore in Steriltom srl.

– Come si riparte dopo questa prova così difficile?

Non è scontata la ripartenza dell’Italia dopo una prova del genere. A differenza delle crisi precedenti questa ha toccato l’economia reale e ha causato un impennata del debito pubblico a livelli difficili da sostenere nel lungo termine. Personalmente penso che la ripartenza potrà avvenire solo se riusciamo a integrare stimoli economici, comunque necessari, a una nuova cultura del “fare impresa”.

Purtroppo oggi le imprese sono spesso viste da parte della politica come fonte di tutti i mali della società o come vacche da mungere. Dovremmo invece renderci conto che oggi l’impresa è l’unico traino della nostra economia e che se si vuole ripartire si deve puntare tutto su questa che è la nostra fonte di ricchezza e benessere.

Salvare le imprese significa, da un parte ridefinire l’intervento pubblico nell’economia secondo un piano di sviluppo industriale di lungo termine e non secondo un piano di prabende e “bonus” preelettorali, e dall’altra ridefinire il sistema di regole che normano il fare impresa in ottica positiva e di sostegno allo sviluppo. Se infatti utilizzeremo questa crisi per togliere burocrazia e lasciare le imprese libere di fare quello che sanno fare meglio, creare valore, allora potremo veramente parlare di ripartenza.

 

– Quali prodotti e quali settori possono fare la differenza per il futuro?

La crisi del Covid ha messo in chiaro l’importanza strategica dei settori farmaceutico-sanitario e alimentare, su questo non c’è dubbio. In particolare stiamo lavorando in Europa per ridare priorità allo sviluppo dell’alimentare e della sua filiera. Durante gli ultimi decenni in Europa ha prevalso una visione miope del nostro settore che a portato nel tempo a una riduzione del supporto all’agricoltura, vedi PAC.

Mentre nel mondo assistiamo a nuove forme di “colonialismo alimentare” da parte di paesi che stanno letteralmente acquistando terreni e zone fertili al di fuori dei propri confini per garantire la sicurezza alimentare ai propri concittadini, noi stavamo indebolendo e togliendo risorse al nostro patrimonio agroalimentare. Serve ora un ripensamento forte che vada nella direzione di garantire ai cittadini europei sicurezza alimentare di fronte a pandemie e cambiamenti climatici e di sviluppare le nostre ricchezze agroalimentari.

 

– Cosa cambierà dopo il virus?

Questa domanda presuppone una risposta molto ampia. Mi limiterò all’ambito che conosco meglio, quello dell’alimentare e dei suoi due canali: il retail (Supermercati e negozi) e il food service o horeca (ristoranti e mense). Negli ultimi anni i consumatori stavano sempre più passando dal retail al food service anche grazie ai nuovi servizi di delivery che erano però ancora marginali. In seguito al lockdown e alla chiusura di ristoranti e mense si è rotta questa tendenza e i consumatori sono tornati a cucinare e a consumare tutto in casa. Questo però ha anche portato a un nuovo sviluppo del delivery che ad oggi è stato approcciato anche da tipologie di ristoranti, dai tradizionali agli stellati, che prima non lo vedevano nemmeno come possibilità. Credo quindi che questa pandemia abbia accelerato certe tendenze comunque già in atto e che alla fine, quando sarà tutto finito, il canale Food Service, ora fortemente colpito, si riprenderà e sarà più forte di prima

 

– Conviene adesso avere imprese strutturate in modo familiare per avere successo? Può essere questa un’opportunità per provare a velocizzare un passaggio generazionale nelle aziende del settore?

Ogni crisi dovrebbe portare con se un cambiamento, un cambiamento positivo che permette una reazione.

Essere un’impresa familiare può essere una forza o una debolezza, il tutto sta, a mio parere, da come si imposta il rapporto tra famiglia  e impresa. Se ci rendiamo conto che queste sono due entità separate e che nell’impresa, in quanto ente economico, si deve privilegiare la razionalità e la meritocrazia, allora l’impresa potrà godere del vantaggio di essere “familiare” (visione di lungo termine, passione vs. problemi di agenzia, tradizione etc) senza incappare nei suoi difetti (inefficienza, scarsa motivazione del management, lotte familiari etc.).

Riguardo quest’ultimo punto credo quindi che durante una crisi come questa, il passaggio generazionale debba quindi essere velocizzato e stimolato ma a una condizione che definirei appunto “meritocratica”; e cioè che le nuove generazioni siano veramente in grado e abbiano le competenze e la formazione per portare avanti l’azienda, altrimenti è meglio affidarsi a manager esterni.

 

– Si svilupperà ancora l’attitudine a “comprare italiano” ? Qual è la sua opinione?

Non credo che poiché siamo stati il primo paese in Europa a essere colpito dalla Pandemia ad oggi si sia persa l’attitudine a compre italiano. Tuttavia nel breve-medio termine potremmo assistere a un periodo di difficoltà nell’export, per il fermo del Food Service (che è il principale traino dei nostri prodotti all’estero), per i possibili blocchi/ritardi alla frontiere e per la tendenza dei vari paesi a favorire i prodotti locali. Per questo sarebbe utile un progetto unico e unitario, svolto a livello nazionale, di promozione del Made in Italy, magari legato a un marchio unico e a disposizione delle aziende italiane.

Intervista a cura di Salvatore Porretto