La diatriba tra i sostenitori degli investimenti passivi e della gestione attiva genera molta confusione. Quali caratteristiche deve avere un portafoglio finanziario per essere considerato “passivo”?
Sempre più spesso sentirai ripetere che la gestione attiva mediamente non riesce a battere il mercato ed è pertanto più razionale ricorrere alla gestione passiva, ovvero ricorrere alla sottoscrizione di strumenti finanziari indicizzati che non si propongono di “battere” il mercato di riferimento ma di fare esattamente come il mercato di riferimento.
Dall’altra parte della barricata c’è chi afferma il contrario, ovvero afferma che esistono gestori (o strategie) che riescono, sistematicamente, a battere il mercato di riferimento e che è pertanto opportuno individuare costoro piuttosto che “accontentarsi” dei rendimenti medi di mercato.
Un vero e proprio scontro, con toni spesso accesi, che va avanti da decenni e che questo contributo non si propone di alimentare.
Credo sia molto più interessante approfondire il vero significato di “investimento passivo”.
Pensiamo ad un portafoglio di investimenti composto da due ETF (Exchange Traded Funds, fondi di investimento utilizzati per replicare l’andamento di un indice), ipotizziamo ad esempio il 60% investito in un ETF azionario e il 40% investito in un ETF obbligazionario; è un portafoglio di investimento passivo?
Una volta definita l’allocazione iniziale, si provvede alla periodica manutenzione del portafoglio (il c.d. “ribilanciamento”), ogni qual volta le azioni dovessero apprezzarsi rispetto alle obbligazioni o viceversa. In questo modo si mantiene il rapporto 60/40 definito inizialmente. Aver stabilito di investire, tramite ETF, il 60% in azioni ed il 40% in obbligazioni e adoperarsi per lasciare inalterate queste percentuali nel tempo, è una strategia di investimento attiva o passiva?
E’ se invece il portafoglio dovesse utilizzare quattro diversi ETF rappresentativi di quattro differenti asset classes (ipotizziamo 20% azioni, 40% obbligazioni, 20% oro, 20% immobiliare)? E se utilizziamo dieci ETF? Stiamo investendo nello strumento finanziario (l’ETF) più adatto per costruire una strategia di investimento passiva e, per di più, ci adoperiamo, con periodici ribilanciamenti, a mantenere inalterata l’allocazione iniziale. Più “passivo” di così?
Sfortunatamente persino i più accaniti sostenitori delle strategie di investimento passive sembrano non avere le idee troppo chiare a riguardo quando considerano, come condizione necessaria e sufficiente, l’impiego di ETF per costruire una strategia di investimento passiva.
Torniamo all’esempio di prima, un portafoglio di quattro ETF: 20% azioni, 40% obbligazioni, 20% oro, 20% immobiliare. Sto quindi utilizzando, in queste percentuali, strumenti indicizzati, che replicano “passivamente” i rispettivi indici rinunciando alla pretesa di poterli battere; nuovamente, ciò vuol dire che sono un investitore passivo?
Pensiamoci un attimo; perchè si è deciso di investire proprio il 20% delle disponibilità destinate agli investimenti finanziari in azioni? E perchè proprio il 40% in obbligazioni (sostituisci queste percentuali con qualsiasi altra percentuale tu abbia letto in articoli, blog, proposte della tua banca o del tuo consulente)? Aver deciso queste percentuali è una decisione “molto attiva” perchè è la decisione che avrà l’impatto più significativo sui rendimenti che un investitore otterrà, nel lungo periodo, dal suo portafoglio finanziario [1].
A chi, in termini troppo semplicistici, sostiene la superiorità di una non meglio precisata strategia di investimento passiva, sembrerebbe bastare che il portafoglio sia realizzato utilizzando ETF (o altri strumenti indicizzati a basso costo) perchè si possa parlare di gestione passiva.
Replicare passivamente uno o più indici non basta a rendere “passivo” il portafoglio nel suo insieme; occorre che siano “passive” (si passi il termine) anche le percentuali con le quali il mio portafoglio è esposto ad ogni asset class.
Ovvero le partecipazioni alle singole asset class (vedi sopra, azioni, obbligazioni, commodities, oro, immobiliare, ecc ecc) devono replicare quelle di un portafoglio che si possa oggettivamente, considerare realmente passivo.
Questo portafoglio esiste e si chiama Global Market Portfolio (GMP). Introdotto da due premi Nobel, Markowitz [2] e Tobin [3] che lo definì come “portafoglio super-efficiente” che bilancia perfettamente rischio e rendimento, fu successivamente individuato da William Sharpe (anch’egli premio Nobel) nel portafoglio comprensivo di tutte le attività finanziarie pesate per i rispettivi valori di mercato.
Come è composto il GMP? Eccone di seguito una rappresentazione sulla base di specifiche ricerche accademiche a riguardo [5].
Il GMP, almeno per chi sostiene l’efficienza dei marcati finanziari, è il portafoglio che, per unità di rischio offre il maggiore rendimento. La “manutenzione” del GMP non richiede un ribilanciamento occorre piuttosto consultare periodicamente la letteratura accademica per verificare che i pesi siano sempre allineati.
Ad esempio, nel grafico in basso, è evidente che ci siano dei portafogli (o singole asset class) che offrono maggiori rendimenti ma presentano un più elevato grado di rischio.
Il GMP, in altre parole, è il portafoglio più efficiente per l’investitore che crede nell’efficienza dei mercati finanziari e che ritiene di non possedere informazioni che il mercato non conosca già e non abbia già scontato.
Veniamo ora al punto fondamentale ma incredibilmente (volutamente?) più trascurato dalla narrazione della “buona consulenza finanziaria” e che l’eterno ed inconcludente scontro tra gestione attiva e gestione passiva ha fatto perdere di vista.
Detenere, intenzionalmente o meno, un portafoglio di investimenti diverso dal Global Market Portfolio implica l’assunto che si sia in possesso di informazioni, di stime di rendimento e di volatilità (ovvero di rischiosità) di ogni singola asset class (azioni, obbligazioni, commodities, ecc ecc). Ovvero implica l’assunto di essere in grado di decidere l’allocazione iniziale e la successiva frequenza e natura del tipo di “manutenzione” da fare al portafoglio finanziario sulla base di evidenze scientifiche non meno qualificate rispetto a quelle che sono alla base del GMP.
Se così non fosse, ovvero se non ci si ritenesse in grado di poter effettuare queste stime, la scelta più razionale dovrebbe essere quelle di investire nel GMP.
I tentativi di migliorare l’efficienza del Global Market Portfolio, il portafoglio passivo per definizione, sono certamente legittimi ma devono essere considerati gestione attiva a tutti gli effetti, anche quando si impiegano ETF per replicare gli indici di riferimento.
Insomma, la differenza tra gestione attiva e gestione passiva è molto più sfumata di quanto si creda e l’investitore consapevole non dovrebbe accontentarsi né di generiche affermazioni che alludano a presunte capacità di saper “battere il mercato” né, tantomeno, accontentarsi della generica rassicurazione che il solo utilizzo di strumenti indicizzati sia esso stesso sinonimo di rigore scientifico nelle scelte di investimento.
Il Global Market Portfolio è il faro, il punto fermo che dovrebbe spingere ogni investitore consapevole ad interrogare e pretendere evidenza scritta e dettagliata del protocollo di investimento che il proprio wealth / asset manager intende utilizzare quando quest’ultimo si propone di assisterlo e consigliarlo nelle decisioni di investimento di lungo periodo.
Questa è l’essenza dell’Evidence Based Investing, investire sulla base delle evidenze.
Luca Cirillo
[1] The True Impact of Asset Allocation on Returns (Roger G. Ibbotson).