Il Lunedì Nero dell”87 (-22,6%): quel crollo che in trentacinque anni neanche si vede

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In Borsa, negli investimenti azionari, vince chi compra tempo. Ce lo racconta la storia.

Questa settimana, precisamente mercoledì, ricorreva l’anniversario di uno degli eventi più noti nella storia dei mercati finanziari: il famoso Black Monday, il 19 Ottobre del 1987.

Quel giorno si meterializzò quello che ancora oggi è ricordato come il maggior calo giornaliero della storia della borsa americana: il Dow Jones (forse l’indice azionario per antonomasia) perse il 22,6% in un solo giorno di contrattazioni (le cose andarono malissimo in tutto il mondo con mercati che persero anche più del 40% – Honk Kong, Australia e Singapore…).

Ancora oggi le cause del crollo sono dibattute: quella più accreditata attribuisce la responsabilità ai programmi informatici che avrebbero – automaticamente – fatto scattare gli ordini di vendita per evitare perdite peggiori (stop loss).

Un’altra teoria invece pensa che sia stato ancora una volta il fattore umano a determinare la corsa verso l’uscita di tutti gli operatori.

Il clima era quello da “fine del mondo”: il mercato azionario veniva dal quinquennio d’oro seguìto alla fine della recessione del 1981-82 causata dal violento rialzo dei tassi di interesse da parte del Presidente della Fed Paul Volcker per porre fine all’inflazione a due cifre degli anni ‘70.

Nei cinque anni dall’agosto 1982 all’agosto 1987 il DJ passò da 776 a 2.722 punti e la maggior parte dei mercati del mondo ebbero guadagni simili.

Ecco perché, nonostante ci fossero sta avvisaglie della “stanchezza” del mercato, gli operatori furono sorpresi dalla violenza della discesa.

Alla fine della settimana precedente infatti si erano già visti notevoli ordini di vendita e il venerdì il mercato aveva chiuso in calo del 4,6%; si pensava che gli operatori potessero gestire le vendite e invece, quando il lunedì il mercato aprì, il forte squilibrio tra ordini di vendita e di acquisto fece precipitare le quotazioni: la giornata si chiuse a -22,6% (meno 508 punti), il calo maggiore di sempre in termini percentuali (mai né prima né dopo si verificò un calo più grande).

Il calo nell’anno fu del 33,5% ma alla fine del 1987 l’indice era comunque su del 5% circa.

Come detto l’impatto emotivo sulla psicologia degli investitori fu devastante e dagli operatori si sentivano voci sulla fine del mercato azionario.

Certo il grafico spaventa ancora oggi a 35 anni di distanza.

 

Ma andiamo a vedere la cosa da una prospettiva diversa.

Questo è un grafico dell’andamento dell’S&P 500 dal 1980 al 2017: ricordate il crollo del 1987? Lo avete ritrovato nel grafico sotto? Come sembra adesso?

 

 

Quello che appariva – visto in un ambito periodale limitato – un crollo verticale senza fine messo in una scala temporale più ampia ritorna a essere quello che è, ovvero uno storno di mercato importante ma non la fine del mondo.

E questo complicato 2022 – che per il combinato disposto di inflazione e tassi in rialzo – sta facendo scendere sia le azioni che le obbligazioni, sta nuovamente mettendo in discussione le certezze degli investitori.

Serve quindi anche oggi un cambio di prospettiva per riportare gli eventi alle loro corrette dimensioni: un calo del 20-25% è importante ma può accadere.

Certo lo pensavamo possibile per le azioni, meno per le obbligazioni ma a volte succede; chi avrà la pazienza di aspettare vedrà ritornare i prezzi (nelle obbligazioni un fatto meccanico), chi venderà getterà al vento i propri soldi come successe in quel maledetto lunedì nero

 

Massimiliano Maccari, 23 ottobre 2022

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