Il nuovo wargame della sostenibilità: istruzioni per l’uso

Brand, Aziende e consumatori di fronte alla fase due della sostenibilità, reggetevi forte

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Wargame

LE AVVISAGLIE

Nel primo modesto accenno di scenario autunnale che Research Dogma ha pubblicato a luglio possiamo trovare traccia di alcuni segnali che appaiono oggi – a due mesi di distanza – sulle prime pagine dei giornali e che non sembrano destinati al veloce dissolvimento.

Si parlava di perplessità del consumatore e dei suoi dubbi (malgrado un clima di consumo ancora positivo sugli effetti della ripresa), si parlava del rischio che un aumento dell’inflazione, non solo da fattori esogeni (up & down materie prime ed energia), ma anche da fattori strutturali connessi con i temi della sostenibilità, potesse creare un movimento contrario o “dubbioso” sui temi della sostenibilità. Una sorta di “no-ET” (rifiuto della Transizione Ecologica, parafrasando il più noto No Vax) con impatti sulle scelte di consumo, sulla desiderabilità delle marche ed alla fine sullo stesso consenso politico.

E’ bastato poco perché il tema diventasse notizia in questo mese di settembre. Un paio di dichiarazioni del ministro Cingolani sui prossimi aumenti in bolletta frutto del combinato disposto di aumenti del gas e dei diritti di emissione. Il riapparire all’orizzonte del nucleare; magari come pura provocazione, ma a fronte di oggettive debolezze delle soluzioni energetiche alternative per l’attuale sistema industriale.

Qualche articolo dubbioso sulla sostenibilità della transizione energetica: Fubini anche di recente ha scritto cose interessanti sul pragmatismo cinese ed USA contrapposti alla visione rigorosa dell’Europa. Queste potrebbero essere le avvisaglie di una riapertura del dibattito – che sembrava ampiamente superato dal consenso unanime – sulla “necessità” di procedere ad ogni costo sulla via della sostenibilità.

 

LO STATO DELL’ARTE

Lasciamo perdere qui ed ora il dibattito pubblico e concentriamoci sulle reazioni degli stakeholder delle imprese, in primis i fedeli clienti dei vostri Brand.

Interrogati in merito, tutti o quasi si dichiarano d’accordo sui valori ed i principi. Gli obiettivi 2030 dell’ONU hanno un consenso unanime, come ha più volte evidenziato nei suoi interventi pubblici Remo Lucchi, maestro e amico ma soprattutto il ricercatore italiano che per primo e con maggiore continuità si è speso con il suo istituto, Eumetra, nel proporre ricerche sui valori di sostenibilità degli italiani.

Ma come sappiamo, in Italia (e non solo da noi), il tema dei valori e delle dichiarazioni spesso si scontra con il piano più concreto e cinico dei comportamenti. In generale, i consumatori italiani sono pronti ad accettare alcune pratiche di sostenibilità, sono poco orientati a pagarla di più e si aspettano che qualcuno (le aziende ed i brand per primi) tolgano loro le castagne dal fuoco senza – ahimè – modificare in modo importante il modello di vita e di consumo. Potremmo entrare più in dettaglio, ma non ci sembra questo il momento, anche considerando che le aspettative sono diverse su segmenti di consumatori e settori merceologici diversi.

 

COSA CI ATTENDE DIETRO L’ANGOLO

Ovviamente il sistema di offerta e le istituzioni potranno forzare o blandire queste sensibilità con imposizioni o “spinte gentili” (come peraltro si sta facendo: dagli incentivi del 110%, a quelli sulla mobilità elettrica). La situazione peraltro è “on the move”. Se prendiamo il piano della Comunità Europea “FIT for 55”, approvato a luglio sulla transizione energetica, esso ha in sé gli elementi per migliorare o peggiorare il consumer sentiment.

Pensando anche solo al worst case: potrebbe comportare un significativo aumento della bolletta energetica di una famiglia media, così come un aumento della tassazione sull’abitazione – tassata, come una azienda, sulle sue “emissioni” – o ulteriori oneri sulla stessa mobilità personale. Non parliamo poi dell’adeguamento industriale di fonti energetiche, materie prime, processi di produzione, confezionamento e distribuzione dei prodotti, che possono impattare – è oggi legittimo pensarlo – sia in positivo che in negativo sugli stessi consumatori.

 

LA SOSTENIBILITA’ DIVENTA UN PROBLEMA DI COMPETITIVITA’ SOSTENIBILE?

Questo sposta il dibattito strategico (anche quello all’interno di ogni singola impresa) su un piano molto pragmatico e leggermente meno valoriale: cosa devo fare per essere o restare competitivo e nello stesso tempo per essere “compliant” ad una serie di norme, regolamenti e valori sociali.

L’issue della sostenibilità si trasforma da problema ideologico e di valori (gestito dai nostri ottimi colleghi della CSR o della Comunicazione) in concreti trade off industriali, con impatti dal DG in su: cosa i miei stakeholder chiedono veramente, cosa sono pronti ad accettare, con quale eventuale sensibilità al prezzo/costo, con quale probabilità di churn verso altre soluzioni meno sostenibili.

 

CHE FARE PER GESTIRE IL NUOVO “WARGAME” DELLA SOSTENIBILITA’

Senza dilungarci troppo proviamo qui semplicemente a formulare alcuni consigli su come prepararsi a gestire il nuovo wargame della sostenibilità. Sappiamo che la metafora è terribile, ma temiamo che sia anche profondamente vera: quando il tema della sostenibilità esce dai semplici attributi di brand per entrare nelle scelte industriali, strategiche e competitive di un sistema o settore la possibilità di avere vincitori e vinti diventa concreta.

Solo tre punti per brevità, su temi importanti e da riprendere magari con maggior dettaglio:

  1. si tratta alzare il livello del tema sostenibilità in azienda: non è più solo un problema di valore del brand è un tema di strategia industriale e/o di offerta. Si tratta di gestire una tematica di Brand Purpose ma con un approccio molto più concreto costruendo team di lavoro specifici sui diversi aspetti. Nel team devono essere rappresentate diverse funzioni interne (dalle anime organizzative e tecnologiche, al marketing e comunicazione, fino alle funzioni commerciali), con contributi esterni di consulenti di organizzazione e mediatori culturali (il ruolo di un istituto di ricerca sociale in questa fase ci sembra molto utile, ma il conflitto di interesse è evidente)
  2. si tratta di analizzare la pratica di sostenibilità aziendale nel suo sviluppo e stato attuale (“as is”): partire da una analisi scientifica di quello che si è fatto. Realizzare un assessment compiuto ed una rendicontazione, non solo di quello fatto, ma anche dei suoi impatti, ad Sul tema della semplice rendicontazione le ricerche pubblicate sulle aziende quotate in Italia dicono che siamo solo a metà del guado, che circa la metà delle aziende fatica a rendicontare in modalità strutturata le sue attività. sembra banale ma il lavoro da fare è ancora molto, anche solo su questo piano.
  3. analizzare la sostenibilità attesa, ovvero il livello delle aspettative degli stakeholder. Si sta velocemente diffondendo l’uso delle materiality map, ovvero – come trovate in nota2, con un racconto più compiuto – la mappatura dei bisogni di sostenibilità espressi dai diversi stakeholder dell’impresa. Le nuove regolamentazioni chiederanno che ci sia corrispondenza fra l’agire di impresa ed il sistema di aspettative dei diversi stakeholder, che sono ovviamente i clienti, ma anche i dipendenti, il sistema dei fornitori e partner industriali e commerciali (fortemente impattato), gli azionisti ed Qui di seguito, per spiegarci meglio, riportiamo una mappa generale, tratta da un sito di specialisti con cui Research Dogma si confronta.

 

MATERIALITY MAP: UNO STRUMENTO OPERATIVO PER LE STRATEGIE INDUSTRIALI E DI MARKETING

 

E’ una pura esemplificazione, anche se aiuta a rappresentarsi il problema. In realtà la materiality map per una azienda deve essere molto più profonda, di questa.

Prendete questa mappa, ad esempio ed il pallino in alto a destra relativo al packaging&waste. La mappa (riferita ad Unilever, lo dichiara il sito che la pubblica, in nota il riferimento) dice solo che il pack è importante.

Ma non dice in quale direzione va il sistema di attese della clientela, ad esempio, quale di queste aspettative che impattano sulla gestione dei pack ci troveremo a dover gestire:

  1. si vorranno molte meno varianti di prodotto per ridurre le confezioni in casa: invece di un pulitore specializzato per il water, il lavandino, il bidet, etc uno solo per tutta la casa (magari uno sgrassante ed uno a base acida anticalcare, pensate gli impatti sulle.)?

  2. basterà lavorare sulla riciclabilità delle confezioni (fatte di plastica riciclata e riciclabili a loro volta) o c’è una attesa di eliminare la plastica (tornando ad altri materiali)?
  1. o invece, andremo a affrontare una opzione più estrema : saremo disponibili o interessati a fare la spesa, recandoci al supermercato carichi di contenitori vuoti da riempire sul posto, con un marketing di prodotto e brand tutto da reinventare?

Sono piccole esemplificazioni e provocazioni, ovviamente, ma con questo vogliamo dire, che la materiality map richiede una analisi precisa delle compatibilità, industriali, di marketing e comunicazione. Questa è la nuova sfida della sostenibilità. Una sostenibilità vera, industriale e non solo valoriale, ma connotata da un elemento chiave: la sostenibilità deve essere sostenibile, a sua volta, sul piano economico, come sul piano cognitivo (deve essere comprensibile e non aggiungere troppa complessità), dei comportamenti e dei bisogni umani.

Altrimenti ci troveremo di fronte ad una massiva distruzione di valore, ad un possibile suicidio industriale (e forse geopolitico, per l’Europa), alla nascita di nuovi “populismi” o vandee, all’insegna del rigetto sociale di un valore centrale per il nostro futuro come la salvaguardia del nostro mondo.

 

Fabrizio Fornezza 

 

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