Economia

Il potere di Big Tech

“E pur [non] si muove”

Economia

L’immenso potere di Big Tech è distopico nell’era dell’informazione.

A seguito dell’assalto a Capitol Hill, Trump è stato rimosso da tutte le grandi piattaforme online: Twitter, Facebook, Instagram, Youtube, Snapchat e perfino Twitch e Shopify. Google ed Apple sono addirittura arrivati a bloccare i download dell’applicazione Parler, un social network la cui identità è basata sulla protezione della libertà di manifestazione del pensiero.

Chi decide?

Senza ombra di dubbio il discorso di Trump, che ha incitato la violenza che ha poi avuto luogo a Washington il 6 gennaio, è stato deplorevole. Ha sottolineato ancora una volta la sua incapacità di agire in modo responsabile in qualità di presidente degli Stati Uniti, così come la sua più totale mancanza di rispetto nei confronti delle istituzioni democratiche, che sono i pilastri della nazione.

Le sue menzogne, la sua impreparazione ed ignoranza hanno guastato non solo gli Stati Uniti, ma anche l’alleanza transatlantica, l’equilibrio geopolitico globale e l’abilità della comunità internazionale di trovare soluzioni a problemi mondiali come il cambiamento climatico. Questa premessa serve per dare contesto alla mia critica, che non è sicuramente basata su un allineamento ideologico col trumpismo.

Essa è infatti basata su considerazioni più fondamentali. Nonostante l’internet sia giovane, il dibattito sulla libertà di manifestazione del pensiero è ben più radicato nella storia della nostra civiltà. Dopotutto, è la comunicazione che ha permesso alla nostra specie di elevarsi nella catena alimentare fino a raggiungerne l’apice e successivamente organizzarsi in comunità funzionali che hanno dato origine all’immenso sviluppo tecnologico e al benessere di cui oggi disponiamo, ed ha dunque senso riflettere sui principi che applichiamo alla regolamentazione degli scambi di informazione.

Oggi, il primo passaggio da fare è probabilmente riflettere su chi li decide e applica: le grandi piattaforme online, compagnie private che hanno deciso nel giro di due giorni di bloccare i profili del presidente degli Stati Uniti d’America, negandogli l’abilità di comunicare con i suoi sostenitori attraverso i loro canali. Si parla di una persona che, volenti o nolenti, è stata votata da oltre 74 milioni di elettori.

La decisione di rimuovere il presidente in carica può anche essere difesa, come verrà illustrato tra poco, ma il fatto che la scelta sia stata presa da un paio di consigli di amministrazione illustra l’immenso potere di cui oggi Big Tech dispone (e abusa). Qualora la decisione fossa stata presa da un’istituzione democratica sarebbe stato un discorso completamente diverso.

È giustificabile la rimozione di Trump?

Il mondo occidentale si basa indiscutibilmente su principi liberali, di libertà dell’individuo, equità di fronte alla legge e democrazia. Le opere di John Stuart Mill, tra i più conosciuti esponenti e difensori di questi principi, hanno espresso con la forza della chiarezza, del buonsenso e della lungimiranza le motivazioni fondamentali per cui è imperativo difendere la libertà di manifestazione del pensiero.

In primis, è grazie all’incontro con idee diverse dalle proprie che un individuo può divenire conscio delle limitazioni delle proprie credenze e lasciarle, adottandone di più congrue. Dalla tesi di Mill emerge il concetto di un mercato delle idee, il quale, al pari di un qualsiasi mercato economico, diventa più efficiente con un maggior livello di liberalizzazione e integrazione.

In secondo luogo, con il libero scambio le idee comunemente accettate dalla società sono costantemente confrontate con ipotesi alternative, il che impedisce che si solidifichino in strutture cognito-culturali che rallentano il progresso sociale e della conoscenza.

Oggi siamo dotati di strumenti che ci permettono di scambiare dinamicamente grandi volumi di idee e informazioni, e gli argomenti sensibili sono meno. Questi strumenti, però, sono piattaforme private. Le regole dello scambio sono decise da loro, così come ciò che l’utente vede.

Mill include nelle sue elaborazioni il principio del danno, col quale argomenta che qualora una persona usi la propria libertà di manifestazione del pensiero per aizzare la massa con fini violenti sia giusto intervenire.

Ogniqualvolta si opti per la censura, emergono però molti problemi, tra questi, due sono i principali. Innanzitutto, quale sarà l’effetto di questa decisione sui sostenitori di Trump? Certo non verranno più esposti alle sue idee su Twitter o Facebook, ma è impensabile che nel 2021 questi non avranno accesso ai suoi discorsi futuri in altre piattaforme. In questo senso, si sta già discutendo la creazione di social per la destra americana. Questi scambi di idee non saranno però più alla luce del sole, ma in ambienti online più chiusi, in cui è più facile le persone vengano radicalizzate, in quanto non esposte a narrative alternative.

In secondo luogo, dove è giusto porre un limite alla censura? Logicamente è molto difficile da stabilire, ma di questo non c’è bisogno di preoccuparsi: chiunque ha questo potere ha anche forti motivazioni personali e non si sofferma su questo tipo di riflessioni.

Un esempio lampante è quello di Unity 2020, un movimento nato online da una coppia di ex professori universitari di biologia evolutiva. Il loro obiettivo era quello di proporre la creazione di un gruppo di unità in parlamento che includesse politici capaci di entrambi i partiti per trovare delle soluzioni alle crisi esistenziali che il paese sta affrontando. Peccato che dopo due mesi di attività, quando gli ascoltatori stavano diventando qualche centinaia di migliaia, la pagina è stata bloccata da Twitter, per una presunta manipolazione del traffico (pratica utilizzata sia dai democratici che dai repubblicani per promuovere le loro narrative online).

Twitter, così come Facebook, Google etcetera non ha mai sentito il bisogno di presentare delle prove, perché, effettivamente, non ne ha nessun bisogno. Le grandi piattaforme online hanno il potere di scegliere quello che vediamo e di eliminare ciò che non gli aggrada. Questo è inaccettabile, in quanto la qualità del discorso pubblico determina il funzionamento e il benessere della società, e deve dunque essere regolamentato dal popolo o dai propri rappresentanti, non da Zuckerberg, Dorsey, Pichai o chi per loro.