Dopo la crisi politica consumata di recente, al nuovo Governo italiano spetta l’ambizioso, nobile e pesantissimo compito di portar fuori l’Italia da una crisi che, per tipologia e profondità, non ha eguali nella storia recente.
A tal fine, le prossime settimane saranno determinanti per dare una spinta decisiva non solo sul fronte sanitario (sul quale, evidentemente, in questa sede è inopportuno intervenire) ma anche sul fronte economico: si tratta infatti di preparare il piano di rilancio che consenta al sistema produttivo del Paese di rimettersi in moto ed accelerare come mai prima.
Sul tema, il nocciolo della questione riguarda naturalmente le risorse europee del cosiddetto Recovery Fund, che rappresentano soltanto l’ultimo tassello di un piano generale di sostegno a livello comunitario che non ha precedenti.
A questo meccanismo, infatti, bisogna ricordarsi di aggiungerne altri, tra cui le diverse linee del MES ed il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme), il programma di acquisti attivato dalla BCE allo scoppio della pandemia, nel marzo 2020, per un importo complessivo di 1.850 miliardi di euro. Insomma, una potenza di fuoco enorme che non è sufficiente utilizzare, ma che diventa indispensabile ottimizzare. Soffermiamoci in questa sede sul famigerato Recovery Fund.
Cos’è e come funziona questo strumento a disposizione degli Stati membri
Con il Recovery Fund si fa riferimento ad uno specifico meccanismo di supporto economico e finanziario incluso nel Next Generation EU, un piano da 750 miliardi il cui accordo è stato raggiunto tra gli Stati membri nel novembre 2020 dopo non poche difficoltà, perlopiù dovute alla distanza di posizione tra i Paesi finanziariamente meno virtuosi ed i cosiddetti “frugali” del Nord Europa, ma che alla fine ha generato un risultato mai conseguito finora: per la prima volta l’UE si dota di uno strumento realmente comunitario e condiviso, pensato per fronteggiare e superare la crisi pandemica.
La missione di Next Generation EU è ben definita: sostenere gli Stati membri nel processo di riforme e di investimenti, pubblici e privati, incentivando in modo particolare innovazione, ambiente, digitalizzazione.
750 miliardi di euro, dunque, così suddivisi:
- 390 miliardi di sovvenzioni (grants, risorse a fondo perduto);
- 360 miliardi di prestiti (loans, da restituire entro il 2058).
Di questa enorme somma di denaro, l’Italia può contare su 209 miliardi circa, ripartiti tra 81,5 miliardi di grants e 127,5 di loans.
A questo punto la domanda sorge spontanea: da dove arrivano questi soldi?
Il funding è quasi totalmente delegato al mercato, attraverso l’emissione di debito comunitario il cui rimborso sarà spalmato sui futuri piani di bilancio, tra il 2028 ed il 2058. I singoli Stati saranno comunque chiamati a farsi carico di un contributo pari al 2% del proprio PIL: questo consentirà di potenziare la fiducia degli investitori internazionali e di migliorare la solidità del debito, attraverso emissioni con rating di massimo livello, pertanto meno onerose e volatili rispetto a quelle dei singoli Stati.
Volendo dare uno sguardo su orizzonti temporali più ampi, dal 2028 sarà necessario dotarsi di misure strutturali di accantonamento di risorse finanziarie, per far fronte ai rimborsi nei confronti dei debitori che inizieranno a partire da quell’anno. Al momento – aldilà di un’unica fonte di entrata propria, la plastic tax che dovrebbe entrare in vigore quest’anno – non ci sono misure definite in tal senso.
Naturalmente, la profondità di queste misure dipenderà moltissimo da quanto efficaci saranno gli investimenti che i singoli Paesi metteranno in atto: l’auspicio generale è che essi abbiano un effetto di reale moltiplicatore sul reddito nazionale, e che tale effetto sia meno asimmetrico possibile.
È indispensabile, infatti, che tutti i beneficiari delle risorse stanziate e raccolte sul mercato possano contribuire pro-quota per evitare che l’inefficienza delle scelte produca un onere maggiore su alcuni Paesi, cosa peraltro già ripetutamente accaduta in altre circostanze e motivo di preoccupazione dei cosiddetti “frugali”.
Proprio per incentivare un utilizzo migliore possibile delle risorse, il Consiglio Europeo ha stabilito regole e condizionalità molto severe a carico di tutti i Paesi beneficiari.