Economia

Il (salva) calcio a chi serve?

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Ogni volta che si incrociano le traiettorie delle leggi dello Stato con il mondo del calcio, si parla di salva-calcio. L’etichetta sembra sempre lì, pronta ad essere appiccicata a questo mondo che, fuor di adunate oceaniche e di po-poppo-po-poppo in occasione delle vittorie dei trofei, sembra quasi infastidire l’opinione pubblica sul presupposto che assorba denaro pubblico. Cosa finanche urticante in un momento di crisi economica con l’impatto post-pandemia e la guerra ancora sulla pelle degli italiani.

Quasi che non fosse uno dei settori industriali più rilevanti in Italia. Quasi che non smuova percentuali per nulla banali di Pil. Quasi che non dia lavoro, direttamente e come indotto, a milioni di persone. Quasi, insomma, che quei denari pubblici, eventualmente erogati (ma quando?), non fossero un po’anche una parte di quelli che esso stesso ha contribuito a produrre e moltiplicare attraverso fatturato, tasse, contributi, investimenti.

Nella vicenda che porterà il Governo – nell’ambito del cosiddetto Aiuti-quater di prossima approvazione – a concedere una rateizzazione delle quote di tasse e contributi sospesi nel corso degli ultimi 12 mesi, c’è un qualcosa di (molto) spiacevole in quell’etichetta di “salva-calcio”, forse pure per sintesi, attaccata agli emendamenti relativi.

Nel periodo pandemico – senza ricevere ristori ma solo rimborsi per i dispositivi impiegati nel corso di un’attività che non si è mai fermata anche con gli stadi chiusi – il sistema delle aziende del calcio hanno goduto di una sospensione di tasse e contributi, arrivata per proroghe ad 11 mesi. Come altre aziende, niente di speciale. Oggi il calcio si trova nella situazione di dover riprendere ad erogare il dovuto flusso nelle casse dello Stato sia per il corrente (qualcosa come 1,2 miliardi all’anno, 15,5 miliardi negli ultimi 14) che per il passato “sospeso” (400 milioni).

Stoppata la via della “lex specialis” pur ipotizzata da un emendamento trasversale poi non condiviso dal Governo, il calcio pagherà il suo da buon contribuente con il medesimo trattamento di tutti i comparti nazionali con una spalmatura in 60 rate di cui tre ad inizio ed il 3% invece del 10% di interessi. Nel dettaglio potrà rateizzare due terzi dei 400 milioni che deve per Irpef e Iva ma pagherà subito il restante terzo per Inps ed imposte dirette.

Dov’è il “salva-calcio”?

Perché questo comparto – che crea ricchezza come pochi in Italia, attraverso un fatturato di 3,5 miliardi di euro diretto e di 10 miliardi indiretto ogni anno – in sofferenza per la crisi economica e carenza di liquidità come tutti gli altri, avrebbe dovuto pagare tutto e subito?

La pandemia ha avuto un impatto devastante sul calcio dal punto di vista economico. Dal punto di vista diretto, si è registrato un calo di oltre 9 punti del valore della produzione, con una crescita di indebitamento di sistema da 4,8 a 5,4 miliardi. Solo le porte chiuse hanno prodotto un calo stimato di 513 milioni per i potenziali 25 milioni di spettatori non entrati negli stadi.  Il calcio senza partite e con gli stadi chiusi ha bloccato una filiera di 12 settori merceologici, centinaia di aziende e migliaia di lavoratori ne hanno fatto le spese con una perdita di fatturato di quasi 2 miliardi (da 10 ad 8 tasse escluse) ed un calo occupazione di 22,5 punti (da 120 a 94 mila). Il calcio non si è fermato, non ha goduto di ristori, i propri imprenditori hanno continuato a mettere soldi per pagare gli 8 mila e più dipendenti anche con sponsorizzazioni quasi azzerate e niente spettatori. Il tutto senza strillarlo dai balconi. In silenzio. “The show must go on” per il bene del Paese, verrebbe quasi da dire. Per paradosso, in quella sospensione di tasse e contributi ha solo ricevuto la definitiva consacrazione a “settore industriale” (che scoperta!).

Oggi, dietro a quell’etichetta di “salva-calcio” gli italiani hanno pure fatto muro (67% contrari alle rateizzazioni secondo un sondaggio Winpoll), vedendo nelle valutazioni dei provvedimenti dilatori l’ennesimo momento in cui quel mondo di ricconi spendaccioni va a prendere soldi dallo Stato. Come se lo Stato non fossero pure le migliaia di famiglie che, direttamente o indirettamente, vivono di e con il calcio. Come se calciatori fossero solo i pochi con stipendi milionari e non, in realtà, le migliaia con contratti più o meno da impiegati (il minimo federale è, ricordiamolo, di 1.150 euro netti).

Guardando i numeri, però, chi “salva” chi?

Che una ampia (ma non totale) area del sistema calcistico non abbia ancora la maturità – manageriale prima che economica – di concepire una gestione sostenibile in una proiezione di medio termine (ma quale settore dell’economia italiana può dirsi tale?), è testimoniato certamente dal monte debitorio che nel periodo pandemico ha raggiunto i 5,4 miliardi (con un disavanzo finanziario di 100 milioni al mese) e che impedisce investimenti strategici in settori-chiave come quelli del settore giovanile e dell’impiantistica.

Altrettanto evidente è, di contro, che il sistema calcistico sia uno dei settori economici (tra i primi 10 comparti industriali del Paese) e sociali più ampi e performanti. Tra il suo milione e centomila tesserati post-pandemia (25% di chi fa sport nel CONI), c’è un terzo degli sportivi Under 18 italiani, ci sono i nostri giovani. Del tutto considerevole l’impatto socio economico a favore del sistema-Paese, calcolato in 4,5 miliardi (1,2 economico puro, 2 per benefici sociali, 1,2 di impatto sulla salute degli italiani). La capacità di creare reddito è stata considerevole se, compreso il periodo pandemico, il valore della produzione aggregato dal 2016 al 2021 è stato di quasi 18 miliardi, con un tasso medio di crescita annuale del 4% (niente male, no?).

Ma vediamo anche al “salva-calcio” in rapporto con lo Stato.

Premessa: le aziende del calcio sono per lo Stato una sorta di contribuenti-modello, “costrette” ad essere in regola con tasse e contributi per non incorrere nelle penalizzazioni e nella non iscrizione ai campionati che la FIGC eroga ad ogni riscontrato inadempimento. Trovatene altre se ci riuscite. Il calcio italiano è tanto un bravo contribuente che dal 2006 al 2019 ha versato allo Stato 15,5 miliardi tra oneri fiscali e previdenziali. Nello stesso periodo, come contributi pubblici Coni ha ricevuto meno di 850 milioni. In pratica restituisce in tasse allo Stato 18,3 euro per ogni euro ricevuto in contributi. Pensate ora se qualcosa di simile avvenisse in tutti i settori produttivi.

Come, poi, non ricordare il Totocalcio? Nei 55 anni di gestione (1948-2003), il calcio ha generato – ripetiamo: a proprie spese e rischio – palinsesti sportivi che hanno fruttato 19,5 miliardi di euro per il CONI (con cui ha finanziato tutto lo sport italiano) e 19,6 miliardi per l’Erario. Oggi le scommesse sportive raccolgono tanti soldi (nel 2021 quasi 12 miliardi e 303 milioni sono finiti come gettito fiscale) ma sapete quanto incassa il calcio che ne è il presupposto? Zero euro. Sì, zero.

Stendiamo quasi un velo sul famigerato “decreto-dignità”, il cui divieto di pubblicità per le aziende di betting ha fatto perdere al calcio non meno di 100 milioni (stima prudenziale) per ogni stagione?

E non ci flagelliamo neppure con le scellerate scelte della politica sugli stadi del Mondiale ‘90 e della inesistente attenzione prestata sull’impiantistica sportiva negli ultimi quarant’anni, che hanno costretto i club ad avere a disposizione strutture sovradimensionate e costose, non (poli)funzionali, con visibilità pessima e senza alcuna prospettiva di sfruttamento commerciale. Un ritardo di almeno un ventennio rispetto a Inghilterra e Germania, un decennio su Spagna e Francia. Forse il calcio andava salvato da chi ha fatto queste scelte, o no?

L’Italia oggi si candida ad organizzare gli Europei del 2032, la FIGC li organizzerà alla grande come sempre accaduto ma deve essere stimolata una nuova politica sugli stadi e sulle infrastrutture delle città ospitanti. Sarà l’occasione per mettere mano a concetti di riordino urbanistico e marketing territoriale. Aria nuova dopo la depressione dei mancati Giochi Olimpici Roma 2024. L’Italia si presenta forte di un appeal mondiale della Nazionale che conta 5,6 miliardi di spettatori, 6,7 se contiamo tutte le rappresentative azzurre. Le vittorie sportive non sono fini e se stesse, ma hanno una capacità potenziale di spingere quasi al +0,8% il Pil nazionale, mettendo in moto un sistema economico in grado di produrre qualche decina di miliardi in più (calcolatelo su 2.100 miliardi…). È stato autorevolmente calcolato che la vittoria del Mondiale del 2006 giovò all’immagine dell’Italia nel Mondo a tal punto che contribuì ad una crescita dell’export del made in Italy del 10% nell’anno successivo. 

Le grandi manifestazioni sono sempre fonte di diffidenze del dibattito politico, scontrandosi spesso posizioni ideologiche. Ma rappresentano sempre un grande e produttivo investimento. Tanto per capirci, le sole 4 gare del recente Europeo svoltesi a Roma hanno avuto un impatto economico diretto, indiretto e indotto di quasi 170 milioni, con un incremento occupazionale di circa 10 mila unità. Che potrà accadere con 10 città, di cui 4 al Sud?

In questo contesto di demagogia, superficialità e snobbismo, il calcio ci ha messo – abbondantemente – del suo per non farsi amare (neppure dai più inguaribili suoi tifosi), in quel misto di scandali, “furbetti”, litigiosità ed incapacità gestionale.

Se è da salvare, allora come lo salviamo il calcio?

Concedendo attenzione e stimolando le riforme. Sull’agenda del neo ministro dello sport Andrea Abodi – che conosce alla perfezione tale mondo – ci sono dossier legati a strumenti legislativi fondamentali (semiprofessionismo, riconoscimento di un gettito per le scommesse, abolizione del divieto di pubblicità per le aziende del betting, grandi eventi e legge quadro sul dilettantismo tanto per citarne alcuni) che potrebbero essere fondamentali per ridare redditualità ed opportunità di crescita. Il mondo del calcio – mettendo da parte per una volta interessi di bottega ed i veti incrociati – deve riuscire a portare a termine le riforme che la governance del presidente Gabriele Gravina ha impostato da tempo su sostenibilità gestionale, impiantistica e settori giovanili in un contesto che potrebbe essere rinnovato anche da un nuovo quadro agonistico dei campionati da varare con la stessa lungimiranza con cui è già stato rinnovato l’impianto del Codice di Giustizia Sportiva.

Il calcio deve, dunque, essere salvato?

Sicuramente dai suoi eccessi, dai suoi isterismi e dal suo certo pressapochismo. Non serve neppure ipotizzare forme di “assistenza” – che non ha mai chiesto e di cui non ha mai approfittato – ma operare un concreto riconoscimento di quel ruolo di comparto industriale e sociale insieme che, a livello di economia e socialità, produce tanti benefici quanta l’emotività dei gol e l’eccitazione delle sue vittorie sportive.

Senza creare “eroi” in vena di salvataggi ad effetto e etichette iconiche al solo uso della propaganda politica in occasione delle politiche di bilancio.

Giuseppe Tambone, 22 dicembre 2022