Ci sono tre offerte vincolanti sul tavolo per acquistare (e rilanciare) l’Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, ma nessuna è sopra il mezzo miliardo di euro contro un valore presunto dell’asset di 1,5 miliardi fissato dai commissari straordinari al momento del lancio del bando di gara. Bastano questi numeri, se le indiscrezioni che filtrano da Taranto saranno confermate, per certificare definitivamente l’autogol subìto dal Paese.
Un gruppo che, indipendentemente da come la si voglia pensare, ai tempi della famiglia Riva era il primo operatore dell’acciaio italiano e che poi è stato ridotto fino a diventare molto simile a un rottame e che ora è oggetto di un complesso piano per ripartire.
Nel frattempo sono accadute molte cose, dai processi all’esproprio fino alla fallimentare gestione di Taranto da parte degli indiani di Arcelor Mittal voluta dal governo di Giuseppe Conte, ma la sintesi è semplice: abbiamo distrutto un settore, quello dell’acciaio, che è strategico per il Paese.
Abbiamo trasformato l’Ilva a un nanerottolo bisognoso di miliardi di investimenti e con gli altiforni che funzionano a singhiozzo, tanto la produzione è finita in macerie e molto inferiore alle stime. Così i pretendenti, che certo sprovveduti non sono ma anzi sanno benissimo come va il mercato, agiscono di conseguenza con offerte che incorporano una comprensibile “tirchieria”.
In particolare a correre per l’intero complesso dell’ex Ilva sono tre big stranieri. Due proposte dall’anima più industriale che sono state depositate da parte della azera Baku Steel in cordata con il fondo sovrano dello stesso Azerbaijan e degli indiani di Jindal Steel; la terza e il fondo di private equity americano Bedrock.
A queste si affiancano altre sette proposte vincolanti che sono però limitate a singoli asset dell’Ilva. A partire da quelle presentate dal gruppo Marcegaglia che punta ad acquistare i tubifici del gruppo. Si tratta del sito di Racconigi, di quello di Salerno e di quello francese di Sénas. Per ciascuno di questi Marcegaglia muove con un partner.
Completano il quadro delle dieci offerte giunte sul tavolo dei commissari alla scadenza di venerdì scorso altri gruppi sempre interessati ad asset specifici. Malgrado l’ottimismo professato dal ministro Adolfo Urso, secondo cui “la partecipazione così significativa di grandi attori internazionali conferma che siamo sulla strada giusta per il rilancio della siderurgia italiana”, la partita resta complessa.
A proporre la somma più alta sembra essere stata Baku, ma ora i commissari dovranno incrociare le offerte economiche con la tutela dei posti di lavoro e con i paletti posti dal punto di vista del green. La ex Iva dà attualmente lavoro a circa 8mila persone e i guai processuali per l’ambiente sono noti.
Si dice che i tagli al personale saranno severi, alcuni dicono potrebbero prevedere il sacrificio di migliaia di posti con relativi costi per gli ammortizzatori sociali a carico di tutti noi. Non per nulla gli stessi commissari hanno messo le mani avanti spiegando che, sebbene il bando sia scaduto, restano disponibili a valutare eventuali altre offerte che siano decisamente migliori di quelle pervenute.
Una speranza resta Arvedi, che si distingue per l’acciaio green prodotto nei suoi forni elettrici. Il gruppo ha già rilevato Ast Terni salvandola dal guado, ma che ha deciso di restare alla finestra su Acciaierie d’Italia. Almeno fino ad ora. Molti i problemi industriali e occupazionali da superare.
Di certo chi rileverà l’Ilva non potrà prescindere dall’evoluzione del mercato mondiale dell’acciaio che vede congelata la prevista fusione, osteggiata dal presidente statunitense in pectore Donald Trump, tra l’americana Us Steel e Nippon Steel per dare vita un nuovo campione del settore.
Così come non aiuta la prevista gelata sull’economia mondiale conseguente ai maxi-tassi con cui Fed e Bce hanno spento l’inflazione e a una Cina che non è mai riuscita a risollevarsi dalla crisi del Covid e dalla conseguente implosione del suo mercato immobiliare che ha portato al crac di Evergrande.