Inps: ecco il futuro delle pensioni

I grandi assenti: previdenza complementare e risparmio

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E’ un futuro previdenziale da incubo quello che ha tratteggiato il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, nella rapporto annuale dell’Istituto presentato all’inizio di luglio a Roma. Nel rapporto l’Inps ha infatti ipotizzato il futuro previdenziale della generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980) sottolineando che i più giovani dovranno lavorare in media tre anni in più rispetto ai più anziani.

“Se il soggetto percepisse 9 euro l’ora per tutta la vita attiva, si stima che l’importo di pensione – si legge – si aggiri sui 750 euro mensili (a prezzi correnti), un valore superiore al trattamento minimo, pari a 524 euro al mese per il 2022”.

Facendo due conti questo vuol dire che in prospettiva la pensione pubblica sarà pari circa al 50% del reddito medio della vita lavorativa. Un dato che è stato presentato come un segno sia delle difficoltà del sistema pensionistico, sia del disagio sociale che ci si attende con simili livelli di pensioni.

Nell’intero rapporto quello che sorprende non sono tuttavia tanto le cifre delle prospettive previdenziali, ma è soprattutto una filosofia di giudizio che sembra riservare solo al sistema statale la possibilità di garantire un futuro dignitoso ai lavoratori. Si sorvola completamente sul fatto che un sistema previdenziale moderno, come peraltro si è tentato di fare anche in Italia, si poggia sui famosi tre pilastri.

A fianco della previdenza pubblica, infatti, a cui spetta il compito di garantire una rendita proporzionata ai contribuiti versati e comunque non inferiore al minimo vitale, vi dovrebbero essere un secondo pilastro costituito dalla previdenza complementare e professionale, e un terzo alimentato dal risparmio privato.

E’ forse opportuno ricordare che la previdenza complementare nel 2023 compirà trent’anni. Con discreto ritardo rispetto agli altri paesi europei. Solo nel 1993 infatti l’Italia ha varato la legge che ha istituito e regolamentato i fondi pensione, garantendo pur limitate agevolazioni fiscali e permettendo ai singoli lavoratori di utilizzare nei fondi le quote che venivano accantonate dalle aziende per il Tfr (Trattamento di fine rapporto).

Dopo trent’anni sono quasi 9 milioni i lavoratori che hanno progressivamente aderito ai fondi pensione. Pochi: in pratica solo un terzo di quanti in teoria avrebbero potuto aderire. Un risultato sostanzialmente modesto che è anche un segno della mancanza di quella educazione finanziaria di base che dovrebbe motivare le scelte di risparmio gestito di lungo periodo.

Nel concreto dovrebbe apparire del tutto naturale che la pensione pubblica copra “solo” tra i 50 e il 60% del reddito medio della vita lavorativa. La pensione complementare dovrebbe aggiungere un 25-30%. Se a queste quote aggiungiamo un 10-15% derivante dal risparmio privato (anche grazie ai piani di accumulo delle principali istituzioni finanziarie) abbiamo che negli anni della pensione il lavoratore può mantenere lo stesso livello e la stessa qualità di vita degli anni lavorativi.

Il pensiero più diffuso invece è che la pensione pubblica dovrebbe dare una garanzia pressochè totale. Non è e non sarà così. A meno di trasformare l’Inps in un grande ente di assistenza avviando lo Stato verso la bancarotta: perché sarà impossibile finanziare a lungo con il debito una spesa corrente, peraltro crescente, come quella pensionistica.

 

Gianfranco Fabi, 13 luglio 2022

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