Investimenti russi: il calcio tra geopolitica e finanza etica

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Lo sport, ed il calcio in particolare, entra nel contesto degli equilibri internazionali e di quelli geopolitici della “questione” Ucraina. Tra gli effetti – collaterali ma non troppo – dei provvedimenti del blocco anti-Russia indirizzati a colpire gli interessi economici degli uomini e delle aziende vicine al regime alcuni sono destinati a coinvolgere, in maniera più o meno evidente, il mondo del calcio europeo.

Da sempre terreno fertile per costruire rapporti e strumento per rendere le relazioni politico-imprenditoriali più semplici e fluide, forse mai come in questo caso, il calcio si è mostrato “ponte” per una penetrazione in piazze economiche strategiche per gli interessi russi. Imprenditori e magnati provenienti dalla Russia – alcuni dei quali ora finiti al centro di provvedimenti di blocco delle proprietà e dell’ostracismo finanziario usato da UE e USA come sanzioni per l’invasione del suolo ucraino – hanno sfruttato molto il calcio per trovare forme di un accreditamento, in termini di visibilità e credibilità, nei salotti buoni della finanza mondiale.

In un contesto più vicino ad uno sportwashing strategico per migliorare ed accrescere la propria reputazione attraverso la disponibilità ad ospitare eventi sportivi che ad interventi dettati da passione sportiva e mecenatismo, i copiosi investimenti nell’ultimo ventennio hanno consentito alla Russia di ospitare solo nel calcio un mondiale, gare dell’Europeo itinerante 2021 e due finali di Champions League (compresa quella appena revocata) in un ambito sportivo in cui si possono ricordare i Giochi olimpici invernali di Sochi, il G.P. di Formula Uno, competizione europee e mondiali di volley, atletica e nuoto.

Niente di simile è mai stato concesso ad un altro Paese, sulla spinta certamente di un “gigantismo” che è storicamente alla base dei big-events sportivi e che ha trovato attrazione dalla disponibilità di fondi che dalla Russia – guarda caso più o meno a partire dall’egemonia politica di Putin ad inizio secolo –  si sono riversati fuori dai confini.

Come avviene con un iceberg, questi investimenti si sono indirizzati a rendere visibili, rassicuranti e positivi tanto i marchi di alcune aziende che l’immagine di alcuni magnati, alla ricerca forse di quel soft power esercitabile sulla massa di tifosi ed opinione pubblica, davanti ai cui occhi si materializzano vittorie sportive e grandi investimenti in campioni.

Al di sotto di questo, però, si muovono le penetrazioni all’interno del contesto finanziario.  Emblematica in Inghilterra la presenza di 25 aziende russe quotate al London Stock Exchange con una raccolta tra il 2005 ed il 2014 di 44 miliardi, in caso da allora ad oggi fino agli 8 miliardi.  Emblematico (forse il più emblematico) oltre Manica il caso di Roman Abramovich, che acquista  nel 2003 per 140 milioni (oggi lo valuta oltre 3 miliardi per la cessione) il Chelsea e lo rilancia a tal punto da inserire nel suo palmares 5 titoli di Premier League, due Champions League, due Europa League, una Coppa del Mondo per club, una Supercoppa Europea e cinque FA Cup.

Sia pur con minor impatto sulla sala dei trofei è la parabola del Bournemouth, acquistato in terza serie nel 2011 da Maxime Victorovich Denim e condotto con tre promozioni in sei stagioni, fino ai 5 campionati ( 2015-2020) in Premier League, abbandonata per l’attuale Campionship. La presenza imprenditoriale russa nel calcio ha anche la traccia del magnate dell’acciaio Alisher Usmanov, molto noto per essere entrato nel 2018 come socio al 30% dell’Arsenal (quota poi ceduta alla famiglia Kraenke, gli attuali proprietari) e fino alla risoluzione dei contratti di questi giorni presente come sponsor di punta dell’Everton (una incidenza del 66% sui ricavi da sponsorship del club nel 2019/2020).

Ci sono le storie di singoli imprenditori presenti nelle prestigiose classifiche di Forbes con patrimoni miliardari che si lasciano sedurre dalla popolarità del calcio ma anche di aziende con interessi miliardari. La Gazprom, innanzitutto, presente come partner di competizioni internazionali e di club. Da citare la sua  sponsorship con l’Uefa, dal 2012 per la Champions League (con un contratto annuo di 50 milioni di euro nell’ultimo triennio ed un altro in via di rinnovo interrotto dalla risoluzione di questi ultimi giorni) ma anche successivamente della Supercoppa, della Youth League e di Champions ed Europeo nel futsal.

E poi la sponsorizzazione milionaria (17 annui dal 2006 al 2017, 30 annui nell’ultimo quinquennio fino alla risoluzione appena intervenuta) a vantaggio dello Schalke 04, club tedesco di Gelsenkirchen, espressione della regione carbonifera della Ruhr curiosamente penalizzata proprio dalla riconversione energetica in favore del gas, in arrivo grazie alla Gazprom attraverso l’oggi noto Stream-2.

Ragioni di real-politik ed interessi economici si intrecciano anche in altre zone dell’Europa. A Belgrado, dove la Gazprom dal 2010 sponsorizza la Stella Rossa, i cui tifosi in questi giorni si sono schierati pubblicamente con i russi ben consapevoli, al di là delle simpatie politiche e degli equilibri nei Balcani, dell’importanza di quei fondi per la sopravvivenza finanziaria del club.

A Monaco, dove il 66% del club del Principato che vede la famiglia Grimaldi in partecipazione minoritaria, è passato per un simbolico euro nel 2011 all’ex cardiologo e magnate dei fertilizzanti del potassio (impero fiorente poi ceduto su pressioni russe), Dmitrij Rybolovlev: risultati lodevoli sul campo (semifinale di Champions League nel 2017 contro la Juventus) e futuri campioni (Mbappè venduto al PSG per 180 milioni) avvistati da quelle parti. In Olanda, Valerij Ojf, russo nativo ucraino ex direttore di Gazprom, dal 2018 è proprietario del Vitesse (5°,7° e 4° posto in Eredivisie, attualmente avversario della Roma in Conference League) , acquistato dal connazionale Chigirinsky presente nel quinquennio precedente.

Queste vicende, sul piano sportivo ed economico, accreditano innanzitutto l’idea che qualsiasi club, sebbene con minor tradizione e prestigio, possa competere ai livelli più alti se finanziariamente sostenuto da copiosi investimenti: sulla traccia russa si sono poi successivamente mossi i colossi del mondo arabo (Manchester City e Newcastel, oltre al PSG) e, prima del divieto governativo degli ultimi anni, di quello cinese (solo l’Inter è nei mani di Suning).

In questo senso lo sport, ed il calcio come sua massima espressione, si conferma sul piano geopolitico come via privilegiata per ottenere riconoscimento ed accreditamento, visibilità e credibilità, strategie molto vicine al “panem et circenses” dei latini.

Nondimeno, i provvedimenti di questi ultimi che Fifa, Uefa ed alcuni dei club in relazioni con entità commerciali russe hanno saputo rapidamente assumere, ci consegnano una sensibilità strettamente connessa con il sentiment  dei propri stakeholders in merito a questa guerra in Ucraina. L’ultima volta di una simile reazione si era registrata nel caso dell’apartheid in Sudafrica, ma allora le sanzioni era derivante da una risoluzione della Nazioni Unite. In un periodo di grandi difficoltà economiche dettate dalla pandemia, questo segnale di finanza etica sembra voler segnare un limite invalicabile al cinico orientamento al business.

 

Giuseppe Tambone, 8 marzo 2022

 

 

 

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