Economia

Investire nell’economia reale: cioè?

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Articolo tratto dal sito www.contemplata.it

 

Lo so. Per i non addetti ai lavori, il mondo della finanza può apparire come un gran Casinò (o un gran casino, eventualmente). Se vinci è perché perde il banco, ma più spesso capita il contrario.
In totale, un gioco a somma zero come direbbero gli economisti. Per quanto si possa convenire con questa interpretazione per alcune fattispecie (penso ai mercati dei derivati), è giusto osservare
che la finanza è invece molto reale, nel senso che incide non poco sulle possibilità del sistema economico (consumatori ed imprese) di svilupparsi adeguatamente. Eppure, sempre di più, si sente dire che occorre investire nell’economia reale. In che senso?

 

Quotato e non quotato: cosa è reale?

In generale, le case di investimento che propongono ai propri clienti di investire nell’economia reale fanno riferimento alle PMI non quotate che, è cosa nota, costituiscono l’ossatura del nostro sistema industriale. E a tal fine, ma ne parliamo oltre, sono stati creati prodotti ad hoc. Alcuni anche fiscalmente agevolati. Ora, tuttavia, ciò potrebbe a mio avviso generare una certa confusione, o almeno indurre a ritenere che le PMI non quotate stanno dalla parte del giusto, mentre le majors quotate sono sporche brutte e cattive.

Facciamo alcuni esempi. Se compro azioni od obbligazioni Enel sto investendo nell’economia reale? A mio avviso, ma direi ad evidenza, la risposta è sì. Si tratta del principale produttore di energia (pulita) elettrica nazionale: accendere la luce quando si torna a casa mi sembra molto reale. E se sottoscrivo le quote di un normalissimo fondo azionario/obbligazionario Europa (magari ESG)? Ancora sì. Sto investendo, molto probabilmente, in aziende che producono beni e servizi di uso comune e che danno lavoro a qualcuno. E per i titoli di stato? Il discorso sembrerebbe diverso ma, nei fatti, la spesa pubblica che vado a finanziare si riversa anch’essa (magari non proprio efficacemente) nell’economia reale.

E se lascio i soldi sul conto corrente? Beh, che diamine, questo significa proprio non volere investire! Ma se la banca usa quei soldi per fare prestiti alle imprese arriviamo, indirettamente, allo stesso punto. Figuriamoci allora l’acquisto di una casa: più reale di così! Per altri prodotti venduti agli investitori retail il dubbio può invece sorgere: alcuni ETP si basano essenzialmente su derivati, così come i certificati e i CFD. Le cripto non abbiamo ancora ben capito cosa sono, sebbene sotto alcune di esse (stable coins) vi sono comunque dei real asset.

Quotato e non quotato: quanto pesano?

Storicamente, il nostro sistema finanziario è sempre stato banco-centrico. Le società quotate costituiscono una minima parte delle imprese operanti in Italia, e la capitalizzazione di Borsa pesa molto poco sul PIL rispetto a quanto avviene in altri paesi. Eccovi alcuni dati al 31 maggio 2021. Listed companies: 471, di cui 144 sull’AIM, il mercato per le società più piccole. Peso capitalizzazione di Borsa su PIL: 41.4%. Peso azioni FTSEMIB su capitalizzazione totale: 80%.

Per comprendere il peso delle PMI in Italia è invece utile fare riferimento al rapporto annuale del Cerved. Secondo la definizione europea, basata su numero dipendenti (< di 250), fatturato (<50 ml) oppure attivo (<43 ml) le PMI sarebbero 158.688. Ma di queste ben 131.758 risulterebbero piccole imprese, cioè difficilmente investibili. Ad ogni modo le PMI cubano per 4.2 milioni di addetti e per più di 1.000 mld di fatturato.

E come stanno andando? Dopo anni di lenta risalita, il Covid ha sicuramente impattato sui fondamentali di bilancio: secondo stime preliminari i ricavi sono in media in discesa del 10% circa, il MOL del 20%, il ROE del 35%. Il numero di imprese a rischio tornerà probabilmente ai livelli del 2014 ma, fortunatamente, i livelli di indebitamento erano stati ben ridimensionati negli anni precedenti. È da sperare che il PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza) risollevi l’intero sistema. Io sono fiducioso.

 

Venture Capital, Private Equity e Private Debt

Ok, ma come si fa ad investire nelle imprese non quotate? Entriamo qui nel campo dei cosiddetti private markets. Da un lato, abbiamo gli investimenti in capitale di rischio delle neonate imprese (start up), in particolare se di stampo tecnologico: si tratta del Venture Capital, oggi accessibile più o meno direttamente attraverso fondi specializzati o tramite piattaforme di Equity Crowdfunding. Attenzione: tutti sperano d’investire nella nuova Microsoft, o in qualche unicorno (start up che raggiungono in breve tempo la capitalizzazione di 1 miliardo di dollari). Ma la percentuale di successo è molto bassa: la maggior parte delle startup muore infatti in culla.

Dall’altro lato abbiamo il Private Equity, cioè l’investimento in società solitamente già mature, con redditività buona e con ancora potenzialità di sviluppo. In questo caso l’obiettivo è di portarsi a casa un buon rendimento e, successivamente, una buona plusvalenza rivendendo le quote a qualcun altro o portando la società in Borsa (way out). Un risultato simile si può ottenere attraverso le SPAC.
Esistono poi anche i fondi di Private Debt, ossia veicoli di risparmio gestito specializzati nel finanziamento di imprese e nell’aiutare le PMI a migliorare la loro struttura finanziaria.

Vediamo però i numeri di questo settore, in Italia. Secondo l’AIFI (Associazione Italia del Venture Capital, Private Equity e Private Debt) nel 2020 la raccolta sul mercato del PE e del VC è stata pari a 2.072 milioni di euro, in crescita (+32%) rispetto ai 1.566 milioni dell’anno precedente. Gli operatori che hanno svolto attività di fundraising sul mercato sono stati 26. L’ammontare investito in operazioni di VC e PE nel 2020 è stato di 5.275 milioni di euro (6.597 includendo la categoria infrastrutture).

Complessivamente nel corso dell’anno sono state realizzate 2 operazioni con equity versato compreso tra 150 e 300 milioni di euro (large deal) e 6 operazioni di ammontare superiore ai 300 milioni (mega deal), che hanno rappresentato il 53% dell’ammontare complessivo investito nell’anno (3.463 milioni di euro). Il mercato del Private Debt è invece rimasto stabile aggirandosi intorno ai 1.197 milioni di euro. Che dire: se fate un raffronto con i prestiti erogati alle imprese dal sistema bancario vi accorgerete che siamo ancora in un mercato di nicchia.

Infine i PIR e i PIR alternativi: prodotti fiscalmente agevolati e, specie i secondi, fortemente incentrati sul modo delle PMI non quotate o comunque di dimensioni non elevate. Ottima cosa. Ma c’è PIR e PIR. Alcuni investono maggiormente in azioni, altri in obbligazioni. Alcuni sono gestiti meglio, altri peggio. E poi, come inserirli in un portafoglio in maniera efficiente? Come considerarli nell’ambito della pianificazione? Chiedetelo al vostro consulente. E meditate, comunque.

 

Fabrizio Crespi