Nuovo ritocco ai tassi di interesse da parte della Federal Reserve. Questa volta però la banca centrale americana si è limitata a dare una mini sforbiciata da un quarto di punto, contro il mezzo punto che aveva tolto a settembre per alleggerire le rate dei mutui e dei prestiti made in Usa.
Ora i Fed Funds viaggiano nell’intervallo tra 4,5 e 4,75%. E in parallelo la Fed ha detto di vedere un certo equilibrio nel percorso intrapreso che dovrebbe portare a centrare in simultanea sia il traguardo di sostenere l’occupazione sia quello di spegnere definitivamente l’inflazione. Quest’ultima continua peraltro a spaventare e a mettere in seria difficoltà molte famiglie statunitensi.
Insomma, la banca centrale appare meno ottimista, rispetto a qualche mese fa, che sul suo pannello di controllo sia davvero già stato tutto regolato a dovere. Dubbi forse alimentati anche dalla politica dei dazi promessa da Trump che, se applicata in modo ampio dalle auto all’alimentare, non potrà che favorire un riaccendersi dei prezzi al dettaglio.
Con la conseguenza per la Fed di dover rallentare il percorso di riduzione del costo del denaro. Al momento gli analisti pensano che i tassi americani caleranno di un punto percentuale nel corso del prossimo anno e poi di un ulteriore mezzo punto nel 2026.
A dire il vero Jerome Powell si è dimostrato fiducioso di mantenere il passo, sostenendo che il mercato del lavoro non sarebbe motivo di inflazione. Il banchiere centrale ha poi aggiunto di essere impegnato a sostenere la crescita dell’economia sebbene ogni decisione sui tassi sarà presa riunione dopo riunione. E’ lo stesso mantra dietro cui trincea la propria indecisione la Bce di Christine Lagarde, proponendo ai mercati la solita zuppa insipida.
George Brown, Senior Economist di Schroders per gli Stati Uniti ha notato come Trump sia ben posizionato per attuare la sua agenda politica, fatta di taglio delle tasse e deregulation, freno all’immigrazione e aumento dei dazi. Tale combinazione sarà però reflazionistica per l’economia a stelle e strisce, alimentando così le probabilità che la Fed si prenda una pausa.
La stessa Schroders ritiene infatti che per gli Usa si aggiri attorno al 3,5% il cosiddetto “tasso neutrale”, cioè il livello di costo del denaro ottimale per favorire il ritorno in carreggiata di pil e inflazione. Quindi il ritorno di Trump alla Casa Bianca “probabilmente significa che la Fed dovrà mantenere i tassi al di sopra di questo livello”.
Si vedrà, come le misure economiche di Trump, sfumati i toni della campagna elettorale, impatteranno davvero sul corso del dollaro e sull’inflazione, dopo che proprio la corsa dei prezzi alimentata dalla Bidenomics ha tanto pesato sull’esito delle urne.
Di certo Powell non è disposto a farsi da parte nemmeno se The Donald dovesse chiedere la sua testa. Lo ha detto chiaramente lo stesso banchiere centrale, opponendo un semplice “no” a chi in conferenza stampa lo punzecchiava su questa ipotesi, mentre replicava che non sarebbe neppure consentito dalla legge a Trump di alzare la voce, vista l’indipendenza statutaria assicurata a all’istituto Eccles Building.
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In ogni caso Trump al momento ha già abbastanza pensieri a comporre la sua squadra. Risolto il capitolo della Casa Bianca e tornato nello studio ovale, a quanto è dato sapere da alcune ricostruzioni della stampa americana, la partita della Fed potrebbe in prospettiva risolversi nel più classico dei compromessi.
Powell finirebbe il suo secondo mandato, affidatogli da Joe Biden e in scadenza nel maggio del 2026, per poi cedere il posto a un fedelissimo del tycoon. Powell ha assicurato che la politica di The Donald non avrà nel breve periodo alcun impatto sulle decisioni della Fed. In sintesi, come insegna Pirandello, “Questa sera si recita a soggetto”.
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