Alla fine del febbraio 2020 il timore che qualcosa di inopinabile stesse per cadere sulle nostre teste da un’altezza inaccessibile alla vista era solo una fioca sensazione che sussurrava al nostro istinto di conservazione.
Quando telefonai per disdire la prenotazione di un tavolo per dodici persone in una pizzeria che affaccia sul mare per il primo sabato di marzo sentii lo stigma della paranoia. Mio figlio aveva invitato gli amici per la sua festa di compleanno. La vita scorreva consueta. Lo stare insieme attorno a un tavolo a mangiare e bere, a ridere, urlare e cantare era ancora un’ipotesi normale. Legale. Gli echi che giungevano da oriente di un cataclisma virale venivano incasellati nei cassetti della mente dove l’etichetta recitava “non ci riguarda”.
E invece ci ha riguardati. Ci ha coinvolti. Ci ha sconvolti. La Repubblica italiana oggi piange i suoi centomila morti. La foto della colonna dei carri militari che portano via di notte decine di bare dagli ospedali di Bergamo un anno dopo torna sulle prime pagine dei giornali come un monito e segna lo scadenzare di un tempo che resta ancora di angoscia e attesa.
Siamo nella terra ignota che ci ha risucchiato tutti insieme lo scorso marzo e il confine che conduce alla tanto agognata normalità ritrovata è ancora celato alla nostra vista dall’architettura misteriosa e mimetica del labirinto di incertezze e errori che stiamo percorrendo. E forse non esiste neppure un’uscita che ci conduca al tempo di prima, perché quello che ci attende sarà inevitabilmente un futuro diverso dal passato che ci ha abbandonato un anno fa.
Chi è nato a marzo è il primo a saperlo. L’incubo non è finito. Quel tavolo dove mangiare insieme è ancora inaccessibile, per la seconda volta. Allora per scelta precauzionale, prima ancora che diventasse un obbligo giuridico oggi ancora valido. E così anche in questo marzo 2021 non si può festeggiare il compleanno di un adolescente, di una madre, di un nonno che attende gli abbracci dei suoi nipoti.
Il distanziamento sociale è ancora il paradigma che segna il nostro presente. Un anno, due compleanni. Quanta vita sta sfumando. Quante esperienze si dissolvono nell’attesa che la parentesi si chiuda. La promessa dell’anno scorso è stata tradita. “Vedrai, ci rifaremo l’anno prossimo”. E invece l’onda è tornata a travolgere il presente. E questa dimensione di sospensione, di respiro trattenuto per poi riemergere, si prolunga oltre il limite del sopportabile. Non abbiamo più fiato.
Riemergere nel mondo è vitale, prima che questa “non vita” che ci siamo auto inflitti per scampare alla morte, diventi essa stessa solo una morte anticipata in tempo di vita. Alessandro Baricco è fra i pochi che sta indagando in modo critico questo cortocircuito tra lo stato dell’arte della pandemia e lo schema mentale novecentesco con il quale lo stiamo affrontando.
L’esigenza di stabilire una estrema riduzione del rischio diviene essa stessa il principale rischio a causa del quale potremmo annientare quello che in fondo è la vita: prendere rischi per trovare soluzioni alle crisi, evolvere, adattarsi.
Le cicatrici di questo tempo sospeso saranno pesanti per chi è al principio del suo percorso esistenziale. Tutte le prime volte che quest’anno custodiva per ciascuno di noi e soprattutto per i bambini e i ragazzi sono svanite nell’oblio. La prima gita, il primo bacio, la prima festa senza adulti, il primo viaggio da soli, la prima cosa che immaginate un cucciolo d’uomo debba sperimentare prima di diventare adulto.
Quella qualsiasi prima cosa che era naturale avvenisse proprio durante questi 365 giorni appena trascorsi e che invece non c’è stata. Arriveranno, forse, in un futuro che disperatamente stiamo cercando di garantire loro, ma saranno irrimediabilmente in asincrono con la vita che gli avevamo promesso. E lo sgomento che essi si stiano formando dentro un altro ritmo esistenziale e che questo li possa rendere più fragili, meno adatti al rischio, all’adattamento, all’evoluzione ci deve interrogare sulle scelte che stiamo compiendo per loro.
Proteggerli dal rischio del contagio, togliendo loro la normalità della vita, che si chiami scuola, sport, socialità, cinema, teatri, musei, ha avuto senso? Ha ancora senso? Non abbiamo immaginato alternative possibili per la loro vita. Il principio di precauzione ha prevalso perché è giusto tutelare il presente. Ma vale anche a scapito di annientare il loro futuro?
Dentro le loro stanze, accolti dal loro mondo virtuale, che per fortuna esiste e gli consente di avere comunque una forma di relazione con i gruppo dei pari, saranno in grado di produrre gli anticorpi necessari per affrontare la vita che oltre il virus, fuori comunque esiste e richiede l’esperienza dei primi ostacoli superati, delle prime delusioni da affrontare, dei primi rischi da prendere e gestire? Senza questo allenamento alla vita, quando essa tornerà con le sue sfide saranno in grado di affrontarla?
Allo stesso tempo mi suggestionano e rifletto sulle parole di Massimo Recalcati che ci sfida a pensare che questo sia il tempo della prova per una nuova generazione chiamata a fare rinunce per il bene della collettività in un mondo che aveva messo fino ad ieri al centro l’Ego. I nostri ragazzi si stanno allenando allo sforzo dell’empatia necessaria per l’altro. Il loro isolamento forzato è un gesto più che di autotutela di protezione per i membri della propria famiglia e della comunità.
Questo esercizio di cura preventiva per il prossimo è forse lo strumento che occorre all’umanità per affrontare le sfide della sopravvivenza della specie in un pianeta che ha bisogno di un’attenzione diversa da parte dell’umanità.
La cura per l’altro da sé, oltre l’appartenenza di specie. Forse questa parentesi pandemica è il campo di allenamento per definire una nuova caratteristica indispensabile alla specie umana per affrontare le sfide del cambiamento climatico e gli effetti dell’antropizzazione del pianeta. Avremo una generazione cosciente che l’imprevisto è un evento certo nel cammino della vita. Che ci sono epifanie lungo il corso della storia che riguardano tutti e che la salvezza del singolo non ha senso se essa non è espressione necessaria per garantire la salvezza della comunità. Siamo dentro uno sforzo collettivo, dove il noi prevale sull’io. Dove la rinuncia è lo strumento di protezione.
Eppure questa lettura di speranza non può distoglierci dalla vista di una disperazione diffusa. Chi ha l’opportunità di confrontarsi con psicologi e psichiatri infantili è messo a conoscenza dell’incremento esponenziale di casi di ansia, di disturbi del sonno, dell’aumento dell’irritabilità nei ragazzi, della violenza gratuita che si sta riversando nelle strade con risse organizzate via social.
Le risorse e le strutture pubbliche per gestire la crescente richiesta di aiuto sono poche e occorre potenziarle. Stiamo investendo a debito risorse ingentissime per fronteggiare la crisi sanitaria e salvare le persone più fragili: gli anziani, i malati. Ma non possiamo dimenticarci di chi quel debito sarà chiamato ad onorarlo in futuro e che oggi vive questo isolamento forzato e contro natura.
Stiamo facendo sfiorire le nostre leve più giovani, lontane da scuola, senza quella indispensabile socialità e insegnamento fondato sulla maieutica. Se chiediamo loro questo sforzo dobbiamo rapidamente potenziare una rete di protezione. Dare un senso al loro sacrificio. Consentirgli di elaborarlo per farlo diventare una competenza per affrontare il futuro.
Se crediamo che l’empatia verso gli altri che sta nascendo dalla rinuncia della propria socialità sia una risorsa per il loro futuro e che non si trasformerà in una incontrollata incapacità di vivere di nuovo insieme una volta tornati liberi, dobbiamo sostenerli, tirarli fuori da quelle camerette, trovare le parole, la forza del dialogo e dove necessario il coraggio della cura e del supporto.
Presto, speriamo presto, quel tavolo sarà di nuovo circondato da ragazzi uniti per festeggiare il compleanno di un amico. Pronti alle sfide della vita, consapevoli, empatici, forse ancora fragili, ma certi che c’è un sistema e un Paese che pensa al loro futuro in modo reale e non solo per pronunciare uno slogan stantio.
Antonello Barone