La lezione dei Maya: quando si rompe l’equilibrio tra uomo e ambiente

L’importanza di un’economia sostenibile per evitare il collasso

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L’equilibrio tra l’uomo e le risorse naturali, alla base di qualsiasi economia e società, è sempre stato precario e continua a esserlo. La storia è ricca di drammatici episodi di civiltà collassate su se stesse perché non hanno saputo rispettare l’ambiente circostante. Sono dei moniti per il nostro presente, caratterizzato da veloci cambiamenti climatici e dallo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali. Conoscere la storia dovrebbe servire a non ripetere gli errori del passato.

 

Dopo aver parlato del caso della civiltà dell’isola di Pasqua, un caso di suicidio ecologico collettivo, vediamo cosa accadde alla popolazione dei Maya che andò incontro a una crisi irreversibile a causa di un combinazione fatale di diversi fattori, tra cui: i danni causati dall’uomo all’ambiente circostante, la crescita demografica e i mutamenti climatici.

 

L’affascinante (ri)scoperta della civiltà precolombiana più avanzata

Oggi le città dei Maya, situate in Messico nella penisola dello Yucatàn, sono perlopiù ricoperte o circondate dalla giungla. Furono riscoperte solo nel 1839 grazie a un ricco avvocato americano, John Stephens, e di un disegnatore inglese, Frederick Catherwood, che esplorarono ben 44 siti maya. In un’epoca passata, queste città abbandonate e riconquistate dalla natura erano state il cuore pulsante della civiltà più avanzata del Nuovo Mondo “scoperto”, o meglio conquistato, dagli europei, l’unica tra le popolazioni precolombiane ad averci lasciato testimonianze scritte di sé.

 

Da uno dei libri scritti dai due esploratori possiamo farci un’idea dell’emozione che provarono ad aver (ri)scoperto una civiltà perduta:

 

“In questa avventura straordinaria che è la storia del mondo niente mi ha mai fatto un’impressione più forte dello spettacolo di questa città che, un tempo bella e insigne, è adesso in rovina, abbandonata e perduta […] sommersa della vegetazione che la circonda per miglia e miglia, senza neanche un nome con cui poterla chiamare”.

 

Come mai la civiltà precolombiana più florida – se consideriamo arte, architettura, i raffinati sistemi matematici e astronomici, la scrittura geroglifica – scomparve quasi completamente?

 

La civiltà dei Maya

I Maya entrarono in contatto con gli europei nel 1502, a soli dieci anni dalla “scoperta” del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo. Gli spagnoli furono testimoni diretti di alcune società maya per circa due secoli, fino a quando l’opera di conquista si concluse con la caduta nel 1697 dell’ultima città esistente.

 

Per saperne di più su questa civiltà affascinante bisogna ricorrere al resoconto del vescovo Diego de Landa, che si sarebbe rilevato fondamentale, quattro secoli dopo, per decifrare la scrittura maya. De Landa è passato però alla storia anche per essersi macchiato di uno degli atti di vandalismo culturale più efferati della storia: tra il 1549 e il 1578, nell’opera di estirpare il paganesimo tra la popolazione maya, distrusse tutti i manoscritti che riuscì a trovare, tanto che oggi ne restano solo quattro.

 

La civiltà maya, situata in un habitat denominato “foresta stagionale tropicale”, in cui si alternano una stagione delle piogge e una asciutta, era agricola e si basava principalmente sulla coltivazione del mais e dei fagioli. Per tutti, ricchi e poveri, il mais costituiva circa il 70% della dieta. Scarseggiavano gli animali domestici – erano presenti solo cane, tacchino, anatra muta e una specie di ape -, così come la selvaggina. Per fattori oggettivi, dovuti all’ambiente circostante, l’agricoltura era poco produttiva e mancavano del tutto animali da traino, come cavalli, buoi o lama. 

 

La società maya si caratterizzava poi per uno stato di guerra permanente tra i vari piccoli regni, o meglio città-stato, proprio per la scarsità delle risorse alimentari che obbligavano gli abitanti a stazionare al massimo a 2-3 giorni di cammino dal palazzo del proprio re – divinità (dove c’erano le scorte alimentari). La principale funzione dei re maya era quella di mediare tra il regno degli dei e quello dei mortali.

 

Come le altre società mesoamericane, anche i Maya non conoscevano la ruota (se non come giocattolo), l’utilizzo dei metalli o le barche a vela. Tutti i loro templi, a forma di piramide, furono interamente costruiti con strumenti di pietra e di legno, grazie alla sola forza delle braccia umane.

 

L’apice della civiltà maya, definita età classica, si raggiunse intorno all’VIII secolo dopo Cristo, mentre a partire dal IX secolo d. C. iniziò il declino socio-politico e demografico: diminuirono case, monumenti e iscrizioni. Perché?

 

I motivi del crollo della civiltà maya classica

 Jared Diamond, nel suo libro “Collasso” (Einaudi, 2005), afferma che dopo l’800 d.C. iniziò il declino della civiltà maya classica, concentrata nella zona meridionale dello Yucatàn, la più densamente abitata dai Maya. Un crollo sia demografico che culturale e politico, contraddistinto dalla diminuzione di fattori di complessità sociale quali le iscrizioni, il famoso calendario, i palazzi e le istituzioni statali. Va però ricordato che:

 

  • non tutte le città maya andarono in rovina insieme;
  • la civiltà maya non sparì nel nulla. Centinaia di migliaia di maya combatterono gli spagnoli per circa due secoli, ma in aree diverse rispetto alla zona meridionale più ricca di città;
  • se da un lato la popolazione diminuì lentamente, dall’altro sparirono improvvisamente i segni del potere.

 

Detto questo, a un certo punto si ruppe il precario equilibrio tra il numero di abitanti e le risorse naturali disponibili. Più persone da sfamare significava produrre più cibo ed estendere quindi le aree agricole per coltivare mais e fagioli. Questo voleva dire tagliare sempre più alberi, facendo diminuire l’area ricoperta dalle foreste, fondamentali per le piogge e il clima umido. Inoltre i Maya passavano il tempo a farsi la guerra tra loro, distruggendo immani risorse che, col passare del tempo, diventavano sempre più scarse e ambite. Infine, attorno al 760 d.C., iniziò il peggior periodo di siccità degli ultimi 7mila anni, che culminò intorno all’800. Iniziò così il declino della civiltà maya classica del sud, l’area più densamente popolata e già interessata da tempo da gravi problemi idrici. Nel sud la popolazione iniziò a diminuire, sia per l’aumento della mortalità che per il calo della natalità, e la gente cominciò a spostarsi verso zone limitrofe più fertili.

 

Nel capitolo quinto del suo libro, Diamond elenca i principali fattori che portarono al collasso la civiltà classica dei maya del sud dello Yucatàn.

 

  • La sovrappopolazione: le risorse naturali disponibili, alla lunga, non bastarono a sfamare milioni di persone il cui numero cresceva sempre di più.
  • La deforestazione e l’erosione dei pendii collinari, che causarono la diminuzione dell’area coltivabile, in un periodo in cui la popolazione era in crescita.
  • Uno stato di guerra permanente, già endemico, che raggiunse il culmine prima del crollo definitivo per il controllo delle risorse sempre più scarse a fronte di una popolazione in crescita;
  • una fase intensa di siccità, fenomeno ciclico in quell’area, che colpì con più intensità rispetto alle epoche precedenti. Un cambiamento climatico insomma favorito anche dal degrado ambientale provocato dall’uomo.
  • Le scelte politiche delle élite. Re e nobili maya non si concentrarono sulla risoluzione dei problemi reali del loro popolo, ma si dedicarono alla guerra, alla costruzione di monumenti e templi-piramide sempre più maestosi, dove si svolgevano i sacrifici umani a carattere religioso per propiziarsi gli dei e, soprattutto, il ritorno delle piogge e di un clima umido.

 

 

Cosa imparare: stili di vita ed economia sostenibili

 Lo scorso 29 luglio è stato il giorno dell’Earth Overshoot Day, ossia la data in cui la Terra ha esaurito le risorse naturali previste per tutto il 2021 e ha iniziato a sfruttare quelle del 2022. Ogni anno questa “deadline” arriva sempre prima. Nel 2020 la giornata era stata il 22 agosto.

 

Il caso dei Maya, assieme a quelle degli abitanti dell’Isola di Pasqua e di altre civiltà scomparse o collassate su se stesse, ci devono ricordare che non si può mai privilegiare l’economia a scapito dell’ambiente. Prima o poi il conto viene pagato in termini di cambiamenti ambientali e/o climatici che possono essere locali o generalizzati. È poi evidente che l’impatto dell’uomo sull’ambiente è direttamente proporzionale al numero degli abitanti e all’impatto pro capite, ossia all’ammontare di risorse che consumiamo a testa. Quanto siamo disposti a cambiare i nostri stili di vita e a realizzare un’economia davvero sostenibile per salvare l’ambiente, il clima e, in definitiva, noi stessi da un eventuale ma possibile collasso della nostra civiltà?

 

Alessandro Fuso

 

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