La qualità paga ma il cliente deve essere al centro

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cliente al centro

DIPENDE (ANCHE) DALLA PERCEZIONE DEL CLIENTE – MA SE VUOI VENDERE, È L’UNICA VIA

Esattamente 40 anni fa, nel 1979, un ingegnere che si era occupato dello sviluppo del progetto missilistico Pershing fornì quella che apparentemente è la più stravagante definizione di qualità. A pagina 13 del primo dei numerosi libri che dette alle stampe si leggeva infatti: “Qualità è balletto, non hockey”.

Quell’ingegnere si chiamava Philip Crosby e il Time, il più prestigioso settimanale del pianeta, più tardi l’avrebbe qualificato come il principale evangelista della qualità. Il libro, tuttora oggetto di ristampe, si intitolava Quality is Free, tradotto poi nelle due edizioni italiane rispettivamente in La qualità è facile e La qualità non costa. Ma che c’entravano balletto e hockey?

 

BALLETTO, NON HOCKEY

Il concetto che Crosby intese esprimere è che la qualità di un prodotto o di un servizio si progetta, si costruisce e si mette a punto con la stessa cura dei dettagli con cui si allestisce la coreografia di un balletto e che, se da parte dei componenti del gruppo c’è il rispetto di ruoli e consegne, il risultato finale sarà verosimilmente quello voluto.

Nel balletto tutto è prestabilito. Al contrario, il dipanarsi delle azioni di una partita di hockey – come di qualsiasi altro sport di squadra – è totalmente imprevedibile, proponendo situazioni che costringono a improvvisare. E per quanto l’impegno di una squadra sia massimo, il risultato finale è comunque incerto.PREVENIRE È MEGLIO CHE CORREGGERE DOPO (E PAGA DI PIÙ)

Il merito di Crosby, passato alla storia del management per aver introdotto il principio “zero difetti” come unico standard accettabile di una prestazione, fu l’aver intuito che

  • la qualità è l’effetto di un processo studiato, analizzato, discusso e perfezionato in tutti i suoi passaggi e non semplicemente la constatazione di un numero insignificante di reclami o l’esito di tardive ispezioni a posteriori.

È la prevenzione, più che il controllo, che riduce anomalie ed errori.

Magari si potrà eccepire – in disaccordo con Crosby – sul fatto che la qualità non costi, ma è fuori di dubbio che la non qualità paga prezzi infinitamente superiori.

 

LA PERCEZIONE

La qualità di un’offerta dipende dalle caratteristiche oggettive di un bene, intrinseche ma anche estrinseche (per capirci, fra due immobili perfettamente uguali una discriminante in termini di valore ad esempio è la posizione).

Per lo più siamo abituati ad associare il concetto di qualità al “top di gamma”.

L’idea di qualità, tuttavia, è in buona parte soggettiva e per altri versi relativa: si forma nella cosiddetta Customer Experience, ossia la somma di percezioni che i clienti – o più genericamente i consumatori – ricavano a partire dal manifestarsi di un’intenzione di acquisto, sia che si concretizzi o meno.

Nella valutazione di una “customer experience” entra in gioco una molteplicità di fattori, ma tutti sono filtrati in base alle singole aspettative:

•  quando il trattamento complessivamente ricevuto non le corrisponde o le delude, il cliente è perso;

•  quando le appaga, se non acquisito, il cliente resta quanto meno contendibile;

•  se le supera, il cliente è solitamente conquistato. E clienti ampiamente soddisfatti generano nuovi clienti, tanto più oggi che il web ha amplificato a dismisura il fenomeno del passaparola.

 

DALL’INDIA UN MODELLO ATTUALISSIMO

Il primo passo per pensare a un’attività di “Customer Experience” (CX) è una totale estroversione, ossia spogliarsi dei propri convincimenti – quali che siano – per assumere il punto di vista del cliente, scoprendo e interpretandone i bisogni e i desideri.

Il punto di vista del cliente è l’unica metrica affidabile, e su quella un guru del marketing dal nome impronunciabile di origine indiana, Ananthanarayanan Parasuraman, ha ideato il modello ServQual, un tuttora attualissimo sistema di misurazione che registra in particolare gli scostamenti fra aspettative e percezioni dei clienti, ma anche il divario ad esempio fra ciò che un’azienda promette e ciò che realmente dà (non scordiamoci mai che le promesse non mantenute sono un micidiale boomerang).

C’è di più. Il ServQual misura pure il divario fra aspettative dei clienti e la percezione che di queste ne ha il management. È il versante che riserva le maggiori sorprese. Una pluralità di indagini rivela come l’80% delle aziende sia convinta di fornire una “customer experience” di ottimo livello, mentre i feedback che provengono dai clienti sono di segno nettamente opposto: soltanto l’8%, statistiche alla mano, riferisce di ricevere servizi che reputa di effettiva qualità. 

Certo, i consumatori sono sempre più esigenti: a dar retta a Gartner, società leader nella rilevazione delle tendenze di mercato, il 54% di loro ha aspettative più alte rispetto soltanto a un anno prima. E sempre Gartner avverte che il terreno in cui ormai si trovano a confrontarsi l’89% delle imprese ha a che fare con le opinioni che si formano alla luce delle esperienze di acquisto e di consumo. Non solo le proprie, ma anche quelle altrui: tutt’altro che trascurabile, in proposito, è il peso delle recensioni su Booking o Tripadvisor.

Si stima che ormai in molti settori merceologici circa l’80% delle decisioni di acquisto sia influenzato, in termini più o meno sensibili, da social media o piattaforme affini.

 

IL CLIENTE È DAVVERO “AL CENTRO”?

“I clienti, non i concorrenti, decidono chi vince la guerra” sosteneva Philip Kotler. 

La customer centricity è il vero punto di partenza, purtroppo tutti ne parlano ma non sempre la applicano a ogni occasione. Sappiamo insomma davvero cosa vogliono e cosa apprezzano i nostri clienti? Quando ci si accontenta di presumerlo, si rischiano grossi abbagli e ne ho avuto personalmente più di un riscontro.

Uno dei settori che ho più seguito negli anni è quello della ristorazione e dell’hotellerie, e per quanto, soprattutto a livelli di eccellenza, vi sia una ricerca maniacale del meglio e molti investimenti in questa direzione, troppo spesso ci si trova a essere autoreferenziali, per non dire introversi. È un po’ come se ci dicessimo: “Siamo i numeri uno, siamo i migliori, siamo eccellenti, peccato che ci siano i clienti…”. 

È un po’ come se fossimo affetti da quella che chiamerei la “sindrome del genio incompreso”.Proviamo a fare degli esempi. Non sarà capitato solo a me di prenotare un soggiorno in hotel e di non ricevere, sia che l’interlocutore sia stata una persona in carne e ossa o un software, uno straccio di conferma da esibire al mio arrivo. Ecco, in questi casi io mi chiedo: ma mi aspetteranno? A volte telefono per sicurezza e spesso vengo avvertito come una seccatura per chi risponde dall’altra parte del filo. Iniziamo bene, mi dico, e vi garantisco che non sto parlando della pensione della signora Rosa, ma di hotel a cinque stelle.

Così pure, quando mi presento in reception, non è raro che l’addetto sia impegnato in lavori di ufficio e non alzi neppure la testa. E io lo capisco che ha un sacco di posta elettronica da evadere perché si deve occupare anche delle prenotazioni, ma cosa conta di più, la risposta a una email o il cliente lì davanti un po’ spaesato e stanco del viaggio? Magari l’attesa è di soli due minuti, ma vi siete mai resi conto di quanto la durata del tempo sia relativa e si dilati quando nessuno ti considera?

Possono sembrare, e forse perfino lo sono, aspetti banali. Ma è già da questi atteggiamenti che emerge come sia ancora diffusa un’ottica ben diversa da quella che più di un secolo fa faceva a dire a John Wanamaker, pioniere della grande distribuzione: “quando un cliente entra nel mio negozio, mi dimentico di me. Lui è il re”.

Non vorrei abusare in citazioni, ma di sicuro a quell’addetto alla reception sarebbe stato quanto mai utile riflettere su alcune parole che Mahatma Gandhi pronunciò in un discorso che tenne in Sudafrica quando esercitava la professione di avvocato: 

“Il cliente non è un’interruzione del nostro lavoro. Lui è lo scopo del nostro lavoro. Non gli facciamo un favore servendolo. Lui ci fa il favore dandoci l’opportunità di farlo”. Quella indicata da Gandhi è la predisposizione giusta e necessaria per abbracciare la “customer experience”, attuando un cambio di paradigma su cui fondare la crescita del proprio business. Il traguardo è l’eccellenza. E l’eccellenza, prima ancora che un risultato, è uno stato d’animo.

Edoardo Lombardi, 5 giugno 2022

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